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Il riformismo aziendale, Paolo Volponi

Il riformismo aziendale, Paolo Volponi

Continua la stagione opaca del gruppo industriale di Ivrea in bilico tra la specializzazione metalmeccanica e le tecnologie in evoluzione dell’office automation.
Nel novembre 1970 chi denuncia la condizione di isolamento del sistema industriale dopo l’Autunno caldo è PAOLO VOLPONI, entrato nel 1956 alla Olivetti di Ivrea come direttore dei servizi sociali, e dal 1966 al 1971 direttore del settore delle relazioni aziendali (capo del personale). Volponi oltre a essere un dirigente è anche uno scrittore di primo piano.
La sua azienda per vent’anni è stata all’avanguardia delle politiche sociali, modello del riformismo aziendale.  Volponi difende la missione dell’impresa e la necessità che non si combatta l’industria come forza ostile al progresso sociale, ma che la si veda come una leva di ascesa collettiva e una sorgente di modernità per l’Italia.
Volponi sperava di diventare amministratore delegato della Olivetti.
Svanita ala prospettiva, lascerà la Olivetti e si trasferirà a Torino, dove dal 1972 avviò una consulenza con la Fiat per i rapporti tra fabbrica e città. Nel 1975 divenne presidente della Fondazione Agnelli, ma fu costretto a lasciare tale incarico per la sua adesione al Partito Comunista Italiano, sgradita ai vertici della Fiat.
Il suo ultimo romanzo è "Le mosche del capitale" (1989).Narra in terza persona la vita di un manager di 46 anni, uomo di cultura democratico ed aperto, il professor Bruto Saraccini, la cui genialità viene schiacciata in azienda dalle cieche logiche di potere e di guadagno. Il titolo di quest’opera allude ai dirigenti industriali di alto livello che, con apparente leggerezza ma con profonda volgarità, rifiutano i sentimenti e la democrazia in nome del Dio denaro.
In generale critica l’odierno liberismo, perché si è imposto come un pensiero unico, da cui sembra impossibile e neppure augurabile liberarsi. Lui invece è convinto della possibilità che la società industriale può di evolversi in modo democratico, soprattutto durante gli anni della vecchiaia egli vide nel comunismo il mezzo ideologico che le grandi e povere masse di uomini sfruttati dall'industria hanno per liberarsi dal giogo del capitalismo.
L’industria aveva la responsabilità di aver attuato una trasformazione del Paese importante, ma a prezzo di uno sfruttamento del lavoro. Ora era tempo di riparare mediante un doppio risarcimento: dando ai lavoratori industriali una ricompensa per il passato in termini di garanzie e di reddito e riconvertendo l’industria in un mezzo di riequilibrio sociale per porre rimedio ai divari della modernità dell’Italia.
Coloro che volevano riformare l’impresa industriale, ammodernare la sua politica pubblica vissero una stagione di isolamento. Il sindacato italiano non era in sintonia coi segnali di cambiamento che provenivano dal padronato.
Fino a tutti gli anni cinquanta la debolezza del sindacato italiano aveva contribuito in misura determinante al realizzarsi sia del miracolo economico che della disciplina di fabbrica. Il ferreo controllo dei partiti politici, assieme a una struttura organizzativa estremamente accentrata e distante dalle necessità più sentite dei lavoratori, stimolò nei decenni successivi diversi tentativi autonomi di instaurare un regime di relazioni industriali in collaborazione con le direzioni aziendali.

Tratto da L'ITALIA DELLE FABBRICHE di Cristina De Lillo
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