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Tipi di gruppi di self help

La tipologia proposta da LEVY è basata sugli obiettivi di fondo e sulla composizione: 
1. Gruppi volti a controllare o riorganizzare un COMPORTAMENTO DEVIANTE (A.A.) 
2. Gruppi orientati ad OFFRIRE SOSTEGNO ed a difendere da situazioni emotivamente dolorose e stressanti cercando di aumentare la capacità di coping (malattia cronica o handicap) 
3. Gruppi che si caratterizzano per la loro AZIONE SOCIALE e CIVILE (emarginazione, supporto etnicorazziale) 
4. Gruppi di CRESCITA PERSONALE ed AUTOREALIZZAZIONE (sostegno reciproco come strumento per migliorare la propria vita). 
LEVINE e PERKINS propongono di distinguere cinque tipi di self-help: 
1. Persone non normali in condizione di isolamento sociale, stigmatizzazione, punizione sociale (malattie croniche, psichiatriche…) 
2. Persone vittime di una stigmatizzazione secondaria (membri di famiglie in cui vi siano soggetti in condizioni fisiche o psicologiche stigmatizzanti) 
3. Persone non etichettate dalla società ma isolate e con scarse risorse (che hanno subito una grave perdita es. vedovi, genitori di bambini malati di tumore…) 
4. Gruppi di assistenza reciproca organizzati sulla base di differenze etnico razziali e religiose 
5. Organizzazioni il cui fine è tutelare interessi specifici (gruppi di cittadini che si formano per affrontare problemi particolari o situazioni che paiono minacciose per la comunità) 
SCHUBERT e BORKMAN propongono una tipologia che si basa su due criteri: 
1. Grado di dipendenza dei gruppi rispetto all’esterno 
2. Tipo di autorità interna riflette il peso che questa ha rispetto a quattro dimensioni: il genere di conoscenza utilizzata nel definire problemi e soluzioni; chi stabilisce le regole di vita del gruppo; l’origine della leadership; il ruolo di un professionista all’interno del gruppo. 


Molti dei gruppi esistenti sono nati in contrapposizione alle strutture formali dei servizi sociali ritenute non in grado di rispondere a bisogni. L’auto-aiuto è utile perché colma gli spazi vacanti dell’incompletezza terapeutica. I rapporti tra questi gruppi e l’organizzazione medico-psicologica sono difficili. Il fatto dell’autogestione del gruppo è delicatissimo, spesso l’intervento di un professionista limita le possibilità offerte dalle relazioni fondate sulla reciprocità e dal senso profondo che acquista il fatto di aver fatto esperienza personale di un problema. L’intervento del professionista non deve mai porsi in posizione di potere ed interferire con il naturale ed autonomo sviluppo del gruppo. 

Tratto da LA PSICOLOGIA DI COMUNITÀ di Ivan Ferrero
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