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Horkheimer e Adorno. Réclame nell’industria culturale



La cultura moderna si fonde con la réclame. Mentre nella società concorrenziale la réclame orientava il consumatore sul mercato e ne facilitava le scelte, ora invece ribadisce solo il vincolo che lo lega alle grandi aziende.
Quanto più il linguaggio diventa comunicazione, tanto più le parole diventano, da portatrici di significato, segni privi di qualità, opache e impenetrabili; e la parola che non significa più nulla si irrigidisce in formula, diventa uno stereotipo.
La ripetizione cieca e il rapido espandersi di parole stabilite collegano la pubblicità alla parola d’ordine totalitaria: molte persone usano parole ed espressioni che o non capiscono nemmeno più, o si adoperano solo come simboli protettivi, che si fissano più tenacemente quanto meno si è in grado di comprenderne il significato. Il totalitarismo dell’industria culturale rende da una parte tutti liberi di scegliere; ma questa libertà si rivela in ultima analisi falsa, poiché è una “libertà di omologazione” al modello offerto dall’industria culturale stessa. “Personalità non significa altro che denti bianchi e libertà dal sudore: è il trionfo della réclame dell’industria culturale”.
In questo contesto lo slogan deve essere ripetuto, ribadito in continuazione, attirare l’attenzione; deve anche risultare familiare, per poter essere compreso. La ripetitività però, come abbiamo visto, lo trasforma in pura forma, svuotata di significati: diventa un cliché; perdendo significato assume la stessa perentorietà delle dittature.
Annamaria Testa sottolinea le differenze tra gli slogan in pubblicità e in politica: in pubblicità questo è scritto nella lingua del destinatario, altrimenti non viene compreso; nella propaganda politica è invece scritto nella lingua dell’emittente, quasi in forma dittatoriale.

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