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P.J. Proudhon e la critica alla visione comunista


10.10 Proudhon è contrario alle posizioni radicali, per lui frutto di intellettuali senza alcun rapporto con la vita quotidiana della gente comune e foriere solo di utopie sterili. Esalta il valore dell’eguaglianza, ma mai assolutizzata, bensì calata nella realtà a contatto con giustizia e libertà, limiti e fondamento di ogni azione sociale. Per questi motivi, egli rifiuta l’idea di uno Stato che si imponga del tutto sul popolo.

10.11 La proprietà non può essere giustificata dal diritto naturale, altrimenti non si farebbe salvo il diritto di eguaglianza. Per questo, secondo lui, chi lavora ha il diritto di possedere ciò che produce: se si accetta l’idea per cui il proprietario, con il salario, retribuisce sufficientemente il lavoro dell’operaio, quest’ultimo diventa solo un mero strumento di produzione, e il lavoro non è più la giusta realizzazione della personalità dell’uomo. Non è neanche possibile uno Stato che gestisca la proprietà in maniera burocratica (a meno di non offendere la libertà individuale): l’unico sistema accettabile, allora, è quello di una concorrenza capace di evitare la statalizzazione dell’economia.

10.12 Lo Stato, allora, deve esistere solo per svolgere funzioni di controllo sulla giustizia delle relazioni economiche: deve avere una funzione puramente limitativa per assicurare giustizia e sicurezza, mentre ogni forma di centralizzazione deve essere abolita per evitare che lo Stato diventi il massimo gestore dell’economia. Per questo, Proudhon è fautore di un sistema federale (basato sui comuni e sulle città capace di allargarsi dalla Francia a tutta l’Europa) che si contrapponga alla centralizzazione.

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