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Socrate e la teoria dell'anima

Socrate (Atene 470/469 – 399 a.C.) non ha scritto opere. Conosciamo la sua personalità grazie ai “Dialoghi” di Platone, alla commedia “Le nuvole” di Aristofane, nella quale il commediografo definisce Socrate un “sofista”, ai “Memorabili” di Senofonte, altro allievo di Socrate e rappresentante del buon senso comune (era molto attento alle dinamiche della città) e ad Aristotele, che non conobbe Socrate, ma il modo in cui ne parla è conciliabile con le altre testimonianze.
Tuttavia il punto di riferimento per definire la sua personalità è la “Apologia di Socrate”.
Nel “Fedone” di Platone, Socrate sostiene una dottrina dell’anima di derivazione orfico-pitagorica: l’anima è immortale, è principio di vita, è quanto di più vero l’uomo possieda e la filosofia è una vera e propria “cura dell’anima” in quanto l’anima è l’unico destinatario del messaggio filosofico.
Socrate parla di “virtù dell’anima”. La parola greca che è tradotta in “virtù” è “areté ”. Essa ha un significato ampio: non è solo “virtù” nel senso etico del termine, ma è anche “virtù” nel senso di “funzione”, “capacità”, “qualità”. Per Socrate, come per Platone ed Aristotele, la “virtù dell’anima” consiste nel raggiungere il suo fine: l’eudaimonia (felicità). Solo l’eliminazione della malattia dell’anima, ossia il vizio, garantisce l’adempimento di tale fine.
Mentre per Socrate già semplicemente “essere virtuoso” significa “essere felice”, per Aristotele questo non basta: sicuramente “essere virtuoso” (si intende anche: possedere un patrimonio, degli amici, una famiglia, la salute, ecc., oltre che comportarsi bene) è una condizione necessaria per “essere felice”, ma non è sufficiente; infatti, per Aristotele, la felicità è la realizzazione della parte migliore dell’anima, l’intelletto. Aristotele, dunque, ritiene che l’anima sia divisa in parti, mentre per Socrate (che mutua molte sue teorie dai pitagorici) l’anima è una entità monolitica.
Si dice che gli antichi fossero sostenitori di una “etica eudaimonistica”, un’etica il cui scopo è il raggiungimento della felicità che si poteva perseguire solo comportandosi bene (con l’eccezione di Aristotele per il quale comportarsi bene non basta per essere felici, ma bisogna vivere teoreticamente). Per l’ “etica cristiana”, invece, la felicità non può essere raggiunta in vita, ma viene raggiunta in un altro mondo. L’etica post-kantiana è soprannominata “etica deontica” perché si fonda sul senso del dovere: perché devo essere virtuoso? Perché devo!

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