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Diceria dell'untore - Bufalino -


Sotto queste insegne nasce del resto Diceria, concepito come una specie di melos in prosa, dove la dimensione teatrale è molto forte. Tra tutte le forme teatrali, il melodramma è d'altronde quella che più esplicitamente si propone come cosa altra rispetto al reale, riproducendone pena, pietà e passioni attraverso un registro espressivo clamorosamente falsato, retorico, eccessivo, che ne ricorda costantemente il carattere di recita. E per Bufalino più la funzione è palese più la vita vera viene ad essere esorcizzata, addomesticata, tenuta a distanza di sicurezza e il palcoscenico assume così i toni della ennesima tana salvifica. Sotto questa luce assume una valenza emblematica il fatto che le prime due schegge di Diceria sono due frammenti ispirati dal mondo del teatro: la danza di Marta e lo spettacolo di pupi che i protagonisti scoprono essere coincidente con la loro vicenda. L'ostentazione e la spettacolarizzazione della falsità di quanto veicolato dalla scrittura letteraria pervadono, infatti, capillarmente la narrativa dell'inattendibile Don Gesualdo, manifestandosi a vari livelli e coinvolgendo insieme al narratore anche i personaggi e le loro bugiarde narrazioni, i quali arrivano spesso pure a fingere false identità per perpetrare un inganno o magari solo per vagheggiare una dimensione differente. E il tutto sempre come metafora e incessante reduplicazione della menzognera attività dello scrittore che anche in questo modo continua indirettamente a parlare di sé. Il concetto di letteratura come menzogna investe la maggior parte degli abitanti della Rocca, a cominciare naturalmente dall'io narrante che inizia la sua narrazione con una finzione onirica che confina con l'inganno, un giocare a morire. Il protagonista non solo è prigioniero di questa condizione ma è anche malato, un malato che spaccia la malattia per stemma, dunque anche il travestirsi da vivo per andare in mezzo ai sani è una paradossale mistificazione, una estremizzazione della menzogna che egli recita senza pudore con sé stesso e con gli altri (“furono giorni felici, i più infelici della mia vita”). Il protagonista è del resto uno che per sua stessa ammissione si muove di preferenza nel mondo fittizio della letteratura piuttosto che in quello dell'esistenza reale (ha più letto libri che vissuto giorni) e anche in ciò si propone ad immagine e somiglianza dello scrittore che talora non manca di emulare esplicitamente attraverso ammissioni e allusioni contenute nella narrazione (pp. 99 – 100). Il lungo brano citato racchiude molti indizi: il narratore è palesemente il doppio dello scrittore che è a sua volta un falsario del reale, e si pone non a caso, da subito, come scarsamente attendibile, pressapochista e incline al trucco. Lo dichiara persino in relazione al proprio racconto del racconto fattogli da Marta, sospeso teatralmente e dunque studiatamente menzognero. Una luce di vita alla fine? No, perché ciò che egli sapeva lo sapeva allora solo dai libri.
Marta a sua volta è una musa mentitrice, una creatura che al narratore sembra inventata, e il trucco e la finzione sono non a caso le sue residue forme di esistenza, esibite come pallidi simulacri di una vita altra. Davanti alle sue menzogne il narratore è quasi inconsapevolmente spinto a mentirle a propria volta, in una sifda al rilancio che non si ferma nemmeno alla morte di lei.
Le finzioni a volte servono ad alleviare paure e sofferenze, come nel caso delle lettere di Angelo e in padre Vittorio. La Rocca del resto è un castello di Atlante, un luogo di visioni destinate a non durare e di cui è regista il Gran Magro, incarnazione della volontà teatrale del siciliano e organizzatore supremo degli spettacoli nel ricreatorio della Rocca. Del resto neanche il narratore, alla fine della sua diceria, riesce a rassegnarsi all'uscita di scena.

Tratto da LETTERATURA ITALIANA MODERNA E CONTEMPORANEA di Gherardo Fabretti
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