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La logica del profitto

Queste poche pagine, dal sapore di un saggio di Montaigne (e che in fondo segue e rispecchia la ricerca antropologica in cui ogni elemento ne richiama un altro), hanno la pretesa di consigliare una riflessione circa la nostra economia fondata sul profitto e l’arricchimento e sulla consapevolezza dei danni che essa può causare.

Il mio intento non è quello di demonizzare la logica del profitto: io, infatti, ne uso i frutti e ragiono spesso nell’ottica di tale meccanismo. È innegabile che si tratti di un sistema che ha portato la società occidentale ad un benessere economico superiore al resto del mondo. Ma le contraddizioni, le crisi e i vari episodi di degenerazione di tale sistema sono visibili periodicamente e ci portano a riflettere sulle falle di una logica che spesso ci rende voraci e ciechi. 

La logica del profitto è anche il non accontentarsi delle risposte, del voler sapere di più anche quando la risposta evidentemente non c’è (come in quel famoso episodio in cui l’antropologo si sentì rispondere: "da lì in poi son tutte tartarughe"). Ma, infondo, noi sappiamo che la nostra sete di risposte è legittima e che la conoscenza del mondo che abbiamo raggiunto ha uno spessore notevole anche di fronte alla complessità delle conoscenze di altri popoli.   

Si potrebbe ulteriormente provocare confrontando un branco animale, da noi percepito come naturale, confrontato alle comunità umane: gli studi etologici ci mostrano "società" animali, disciplinate da riti come, ad esempio, la lotta per determinare il maschio dominante, organizzate dal punto di vista gerarchico e lavorativo: è esemplare la struttura sociale delle api o delle formiche.  
Ora, perché dovremmo considerare le società animali come naturali e le nostre come artificiali? La relativa complessità delle nostre società è sufficiente a determinare una scissione della nostra vita dal mondo naturale?  
Questo che mi porta a concludere che, sulla scia della provocazione iniziale, la cultura è Natura. La cultura non è prodotta dall’uomo a priori ma è qualcosa che si viene a formare man mano che egli interagisce con il territorio che lo circonda. Essa si sviluppa come la natura: l’immagine che ora ho in mente è uno di quegli alberi che son cresciuti storti perché per vivere hanno dovuto deviare il loro tronco alla ricerca della luce solare. Anche le varie culture si sono sviluppate e si sviluppano deviando i loro tronchi, ramificandosi a seconda degli ostacoli che incontrano durante la loro vita. 

Si può quindi paragonare l’evoluzionismo naturale all’evoluzione della cultura. L’evoluzionismo naturale ha avuto risultati diversissimi partendo da antenati comuni, in analogia possiamo ritenere il lavoro di Cavalli-Sforza sulle derive genetiche umane  come la metafora della naturalità delle culture. Specie animali molto diverse hanno caratteristiche in comune come popoli lontanissimi condividono leggende simili.  Ma non possiamo certo determinare ora i motivi delle somiglianze, è un’analogia il cui fine è solo quello di rendere la cultura un elemento un po’ meno artificiale rispetto a ciò che comunemente pensiamo. Non possiamo nemmeno approfondire ulteriormente ciò che in queste pagine ha solo la parvenza di un’intuizione.
Naturale ed artificiale potrebbero, dopo ulteriori analisi, rivelarsi frutto di una percezione relativa alla nostra posizione nel mondo. Ovvero, tornando alla metafora della rondine: essa potrebbe, dal suo punto di vista, ritenere artificiale il nido e naturale un aereo.

Oppure, quel che noi riteniamo naturale corrisponde alla logica dell’uso e l’artificiale è ciò che corrisponde alla logica del profitto: potremmo anche accettare l’idea che un mongulu sia naturale ma un grattacielo, sicuramente, non lo riterremmo mai tale. Farmaci e pomate fatti di erbe li riteniamo naturali, ma più lavoriamo la materia con macchinari e trasformazioni chimiche, più ci allontaniamo dall’idea di naturalezza (di certo non consideriamo naturale un’aspirina). 

Sarebbe pericoloso ritenere naturale tutto ciò che è opera dell’uomo – come ho suggerito all’inizio di questo saggio – ci si ritroverebbe ad asfaltare tutto ciò che ci circonda giustificando il tutto sulla base di ipotesi fraintese (come quando Adolf Eichmann affermava di aver agito secondo la morale kantiana del dovere per il dovere). 

È difficile ora concludere un discorso che forse non è mai cominciato realmente, l’ermeneutica del rapporto fra cultura e natura ha sicuramente bisogno di più pagine, la dicotomia è labile, instabile. Il mio tentativo di eguagliarle non è stato più di un semplice atto provocatorio per dimostrare la fragilità dei due concetti. Sono categorie che ricordano i recinti aperti di Wittgenstein, ma sono pur sempre recinti.

Tratto da LOGICA DEL PROFITTO, NATURA E CULTURA di Mariano Mercuri
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