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Il consenso informato


Prendendo in esame il nuovo cdi al capo III intitolato “La relazione e la comunicazione” leggiamo all’art. 14 che “l’infermiere ascolta la persona assistita, la informa e dialoga con essa per valutare, definire, qualificare e attuare la risposta curativo assistenziale e facilitarla nell’esprimere le proprie scelte” e all’art. 17 che “l’infermiere conosce il progetto diagnostico e terapeutico. Dà valore all’informazione integrata multi professionale di cui si cura la relativa documentazione. Si adopera affinché la persona assistita disponga delle informazioni necessarie ai suoi bisogni di vita”. Dalla lettura di questi due articoli possiamo dedurre che, in buona sostanza, l’infermiere deve favorire il recepimento delle informazioni da parte della persona assistita che deve, a sua volta, in base alle informazioni ricevute, esprimere una scelta. Ne deduciamo un ruolo fondamentale del professionista nel consenso informato in quanto deve in qualche modo garantire, per quanto gli compete, una giusta comprensione da parte degli assistiti circa le prestazioni a cui si sottopongono. In base alla letteratura possiamo dire che il consenso informato si esprime con la capacità di autodeterminazione di una persona relativamente una scelta da intraprendere come precisato dalla Cass. Civ., III sez., sentenza 9 febbraio 2010, n. 2847, “il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario omissis, si configura quale vero e proprio diritto della persona omissis”, in merito ad un trattamento sanitario a cui sottoporsi, e successivamente aver ricevuto nel modo più appropriato le informazioni circa i rischi del trattamento e circa eventuali trattamenti alternativi ad esso. Un mancato consenso inteso come omissione dell’atto di informare può portare in sede civile al risarcimento del danno arrecato per azione omissiva e anche per errato svolgimento nel fornire informazioni come dedotto dal punto 4.2 (motivi della decisione) della sentenza della Corte di Cassazione, sez. III Civile, 18 dicembre 2015 – 20 maggio 2016, n. 10414 (che a sua volta fa riferimento ad altra giurisprudenza). La prima volta che vediamo espresso il concetto di autodeterminazione dell’individuo è in una sentenza del 1914 dove fu condannato a risarcire il danno il NY Hospital, di seguito le parole del giudice Benjamin Cardozo “Every human being of adult years and sound mind has a right to determine what shall be done with his own body, and a surgeon who performs an operation without his patient’s consent commits an assault.”  Ne deduciamo che in questo caso il giudice definiva un assalto, inteso come aggressione alla persona, l’omissione del consenso informato al fine di sottoporre un individuo ad un trattamento, nella fattispecie chirurgico. Giuseppe Cassano trattando il consenso informato in una sua opera ci dice che “Deve intendersi, allora che il consenso afferisca alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto delle proprie integrità corporee”, anche qui troviamo ribadito il concetto di libertà di autodeterminazione del soggetto. Per comprendere meglio la responsabilità del sanitario, che deriva dall’ omissione dell’obbligo del consenso informato cito la Cass. Civ., sez. III, 20 agosto 2013, sentenza n. 19220 “La responsabilità del sanitario per violazione dell'obbligo del consenso informato discende a) dalla condotta omissiva tenuta in relazione all'adempimento dell'obbligo di informazione in ordine alle prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente sia sottoposto b) dal verificarsi in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente”. A completare il quadro, possiamo dire che l’operatore sanitario che esegue la prestazione per la quale c’è bisogno del consenso deve in prima persona informare la persona da sottoporre al trattamento, come precisato dalla Cass. Civ., Sez. III, 15 gennaio 1997, n. 364.  Nella quasi totalità delle sentenze afferenti al consenso informato, si parla esclusivamente della figura del medico, questo non implica che l’infermiere sia esonerato da tale responsabilità, rispetto anche a ciò che abbiamo detto fino ad ora e rispetto a tutte quelle norme, omesse in questa sede, che hanno fatto crescere la responsabilità infermieristica. Come accennato, in sede civile tale violazione può portare ad un risarcimento di natura economica che, a questo punto, interessa in prima persona il sanitario che viola l’ordinamento giuridico anche se coinvolge la struttura sanitaria di cui il sanitario fa parte; se ne deduce una bipartizione netta della responsabilità come dedotto dall’art. 7 del ddl Gelli. Ovviamente per dar luogo ad un risarcimento il mancato consenso informato deve produrre un danno in termini di salute come precisato dalla Cass. Civ., sez. III, sentenza 30 luglio 2004, n. 14638. La gestione post danno è un momento delicatissimo, nel quale le circostanze non devono far aggravare le conseguenze del danno recato, dove si deve ricercare da subito un buon livello di comunicazione con l’utente che ha subito il danno, e con eventuali familiari, tutor, associazioni, etc., senza dimenticare che una buona riuscita dell’intento è data solo se c’è ex ante un buon livello di comunicazione tra tutti gli stakeholders: professionisti, utenti, istituzioni. É essenziale che possa essere instaurato un buon codice comunicativo tra utente/persone e professionisti già dai primi istanti di contatto. Quindi nell’ipotesi di controversia tra le parti il poter comunicare un messaggio all’altro risulta un vantaggio per entrambe le parti. Vedere, agire, apprendere in sinergia determina vantaggi per la persona, gli operatori sanitari e l’istituzione.

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