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Problemi economici e di ordine interno in Italia dopo la Prima Guerra Mondiale


Tra il ’18 e il ’20 i prezzi continuarono ad aumentare e ciò si tradusse in una grande ondata di agitazioni sindacali e scioperi nel settore industriale e dei servizi pubblici. Non meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. Leghe bianche e leghe rosse si battevano spesso per le stesse rivendicazioni immediate, ma divergevano profondamente negli obiettivi di lungo periodo. Nel ’19, nelle prime elezioni politiche del dopoguerra, l’esito fu disastroso per le vecchie classi dirigenti. I gruppi liberal-democratici persero la maggioranza assoluta, e i socialisti si affermarono come il primo partito, seguiti dai popolari. Su questa precaria coalizione si formarono gli ultimi governi dell’età liberale.

Nel Giugno 1920 a costituire il nuovo governo fu chiamato l’ormai ottantenne Giovanni Giolitti. Nei 12 mesi in cui tenne la guida dell’esecutivo, diede prova ancora una volta di abilità. I risultati più importanti il governo li ottenne in politica estera. Il 12 Novembre 1920 venne firmato il Trattato di Rapallo, con cui l’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara che fu assegnata all’Italia, Fiume fu dichiarata città libera e sarebbe diventata italiana nel 1924. Il Trattato fu accolto con generale favore dall’opinione pubblica e dalle forze politiche. Molto più serie furono le difficoltà in politica interna; il governo impose la liberalizzazione del prezzo del pane per avviare il risanamento del bilancio statale, ma a fallire fu soprattutto il disegno politico complessivo di Giolitti: disegno che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie degli operai, accogliendone in parte le istanze di riforma, esperimento che non era più attuabile. I conflitti sociali, infine, conobbero nel 1920 l’episodio più drammatico con l’agitazione dei metalmeccanici culminata con l’occupazione delle fabbriche. Da un lato, gli industriali del settore metalmeccanico, ingranditosi con la produzione bellica, minacciato dai primi segni di una crisi produttiva; dall’altro una categoria operaia compatta e combattiva, organizzata dal FIOM. Fu il sindacato a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e normative cui gli industriali opposero un netto rifiuto. Alla fine di Agosto la FIOM ordinò ai suoi aderenti di occupare le fabbriche. In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche e di collegarsi ad altre lotte sociali, prevalse così la linea dei dirigenti della CGL che proponevano come obiettivo il controllo sindacale sulle aziende. Tale esito fu favorito dall’iniziativa mediatrice di Giolitti che riuscì a fare accettare gli industriali un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della FIOM ed affidava ad una commissione l’incarico di elaborare un progetto per il controllo sindacale che non si attuò mai. L’esito dell’occupazione delle fabbriche lasciò nelle file del movimento operaio uno strascico di polemiche, i dirigenti riformisti della CGL erano accusati di aver svenduto la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale. Al congresso del partito tenutosi a Livorno nel Gennaio del ’21, i riformisti non furono espulsi ma fu la minoranza di sinistra ad abbandonare il PSI per formare il PCI.

Tratto da PICCOLO BIGNAMI DI STORIA CONTEMPORANEA di Marco Cappuccini
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