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La teoria della motivazione a proteggersi


Nella sua formulazione originaria, la Protection Motivation Theory di Rogers era destinata ad analizzare gli effetti dei messaggi persuasivi sull’adozione di comportamenti protettivi.
La motivazione a proteggersi dalla malattia è il prodotto della percezione della gravità della minaccia, della percezione vulnerabilità personale e dell’efficacia della risposta di coping nel ridurre la minaccia.
La versione modificata include anche la credenza nella propria capacità di far fronte alla situazione; inoltre assume che la motivazione ad eseguire la risposta di coping sia negativamente influenzata dai costi di tale risposta e dai potenziali benefici delle risposte disadattive.
Rippetoe e Rogers raggruppano queste variabili in due classi distinte: esse riguardano da un lato la valutazione della minaccia della malattia, che risulta dalla differenza fra i benefici potenziali delle risposte disadattive e la percezione di gravità e di vulnerabilità personale, dall’altro la valutazione delle risposte di coping, che risulta dalla differenza tra l’efficacia della risposta di coping, l’autoefficacia e i costi di tale risposta.
La motivazione di un individuo a proteggersi da una malattia è massima quando:
- la minaccia per la salute è grave
- l’individuo si sente vulnerabile
- la risposta adattiva è giudicata efficace nell’allontanare la minaccia
- l’individuo nutre fiducia nelle proprie capacità di riuscire a realizzare la risposta adattiva
- le ricompense che derivano dal comportamento disadattivo sono limitate
- i costi associati alla risposta adattiva sono bassi.
La variabile che differenzia questo modello dall’Healt Belief Model, aumentandone il potere predittivo, è la credenza dei soggetti di essere in grado di eseguire un determinato comportamento (self-efficacy). Il modello prevede inoltre l’esistenza di una interazione fra la valutazione della minaccia della malattia e la valutazione della risposta di coping.
Se i soggetti si sentono sicuri e competenti nell’eseguire una determinata azione preventiva, l’offerta di informazioni che accrescano la percezione di vulnerabilità personale o la valutazione della gravità della minaccia dovrebbe aumentare la motivazione a proteggersi e pertanto l’intenzione ad agire.
Se mettiamo a confronto i due modelli entrambi prevedono la percezione del rischio e della vulnerabilità personale come credenze centrali nel determinare i comportamenti che hanno implicazioni per la salute. Essi condividono che le persone siano in grado di compiere una analisi razionale abbastanza sofisticata del rischio, valutando i benefici dei comportamenti rispetto alle conseguenze potenzialmente negative.
A livello empirico, il legame tra percezione del rischio e della vulnerabilità e comportamento preventivo non è stato sempre confermato, e in particolare nei casi in cui i comportamenti preventivi sono complessi e i risultati negativi potenzialmente gravi.
Altri aspetti problematici riguardano il processo cognitivo di valutazione del rischio o della vulnerabilità personale che appare soggetto ad una serie di errori di giudizio.
Uno di questi è l’ottimismo irrealistico, in base a cui le persone valutano di essere meno a rischio rispetto ad altri.
Le ipotesi esplicative chiamano in causa sia meccanismi cognitivi (percezione di controllo, stereotipi), sia motivazionali (mantenimento dell’autostima, egocentrici).
Questi modelli, si focalizzano su processi cognitivi individuali, ignorando che tali cognizioni sono modellate dalle emozioni e dai processi sociali e culturali.
I modelli non prendono in considerazione il fatto che il significato del rischio per l’individuo è determinato dalla sua esperienza personale nei confronti della malattia, dalle credenze, dai valori, inclusi quelli morali, nonché dalla percezione di controllo sull’evento rischioso.
Non considerano gli aspetti dinamici della valutazione del rischio, la quale può variare da un istante all’altro, in funzione dei fattori dipendenti dal contesto sociale e culturale.

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