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Il declino della centralità del Parlamento


Un indebolimento della vecchia centralità del Parlamento è ovunque riscontrabile.
In Inghilterra la formula della sovranità del Parlamento è solo una frase evocativa perché i tempi dei consumi sono largamente nelle mani del governo.
In tutti i sistemi democratici il Parlamento resta la principale istituzione che consente un raccordo stabile tra decisione e cittadinanza. Oltre che sede di rappresentazione di un’articolazione pluralistica delle opinioni e dei gruppi sociali, il Parlamento è un’arena che offre uno spazio pubblico al conflitto, fornisce regole, riti, procedure per canalizzare le principali contese.
Il Parlamento gestiste due processi diversi ma convergenti.
Per un verso, in origine costringe il governo a scendere in aula e a perdere il legame esclusivo con la Corona. Per un altro, stimola i soggetti sociali a salire in un ambito istituzionale per conferire al conflitto un riconoscimento politico. Il Parlamento esprime ancora una capacità i decisione sulla vita e la morte degli esecutivi, al di là del dispositivo formale del voto di fiducia.
Riesce a rallentare l’azione dei governi, a condizionare l’agenzia, a discutere i tempi, a far esplodere lacerazioni e divisioni all’interno della maggioranza.
Anche in Francia resiste una funzione legislativa del Parlamento. A dispetto della Costituzione di carta, il governo non dispone di autonome competenze normative e solo con enormi difficoltà può fare ricorso alle prerogative accordategli on delega legislativa. Il Parlamento continua a fare leggi ed è ancora la principale fonte normativa.
Il Parlamento legifera più in Francia che in Italia. Nel processo di produzione legislativa la prevalenza del norme che provengono dai deputati della maggioranza è schiacciante.
I segnali di decostituzionalizzazione della politica sono molteplici. Appare difficile esprimere un nuovo equilibrio tra i sei poteri (governo, parlamento, pubblica amministrazione, potere giudiziario, suprema corte, capo dello Stato). Il processo legislativo non si conclude con il varo della legge, ma si incammina in un tortuoso percorso nel quale si incrociano soggetti che rallentano, interpretano, aggiornano, la legge approvata.
L’arco temporale piuttosto lungo del processo legislativo e dell’implementazione consente la maturazione di ripensamenti, di correzioni, di adattamenti, di snaturamenti, di sterilizzazioni.
Nel sistema politico italiano non sembra trovare conferma il test del doppio ricambio (vedi prima lezione) come indice di consolidamento democratico.
Le misure di microrazionalizzazione hanno contribuito a depotenziare l’opposizione e a conferire al governo ampi margini di manovra. I nuovi regolamenti della Camera riorganizzano i tempi, ridefiniscono il processo legislativo, curano la qualità della legge, riconoscono il primato del governo nella programmazione dei lavori, incrementano le corsie preferenziali per i disegni di legge, introducono il question time.
La frammentarietà normativa risulta di molto accresciuta. Anche la sentenza della Corte Costituzionale che ritiene illegittimo il ricorso alla reiterazione dei decreti non convertiti è stata di fatto aggirata con abusi nelle deleghe legislative, nelle delegificazioni, nella riforma dei regolamenti, nelle procedure speciali per la finanziaria.
Il Governo accelera verso forzature normative e regolamentari perché non può contare su una maggioranza parlamentare compatta e per andare avanti deve farsi delegare il potere normativo su materie molto variegate, da quelle finanziarie e di bilancio a quelle previdenziali e tributarie, a quelle concernenti il riordino dell’amministrazione pubblica. Per comprimere la litigiosità della coalizione e il riemergere dei franchi tiratori il governo ricorre a un uso abnorme del voto di fiducia. L’esperienza delle leggi ad personam svela che non basta che la legge sia fatta dal Parlamento perché possieda una qualità superiore e non precipiti negli abissi della microsettorialità, dell’interesse addirittura personale. Dall’altra parte non è sufficiente che il governo per via regolamentare rafforzi la sua autonomia dal Parlamento e diventi il padrone indiscusso del processo legislativo perché aumenti anche la selettività della norma, l’implementabilità della legge, la rapida ed efficace copertura amministrativa.
Sul piano formale il Governo vanta, ormai, attribuzioni che lo rendono autonomo dal Parlamento.
La camicia di forza del maggioritario dapprima obbliga partiti e formazioni ridotte a mere sigle a stipulare accordi, pena la scomparsa. Ma la parvenza di un’elezione monocratica del premier indicato sulla scheda si dissolve rapidamente dopo il voto quando le concluse coalizioni elettorali si sciolgono e si assiste alla proliferazione di sigle, partiti personali, liste. I partiti hanno bisogno di stringere alleanze più o meno sincere ma hanno anche necessità di romperle per riacquistare potere contrattuale. Lo stesso meccanismo che li induce ad aggregarsi in vista delle urne li sospinge dopo il voto a rompere le righe. Per ripresentarsi hanno infatti bisogno di trovare un’autonomia, di inventarsi una tradizione.
Le coalizioni sono così eterogenee e frammentate che il programma elettorale risulta scarsamente vincolante a fronte di una contrattazione continua e rissosa.
Più che della responsabilità dell’indirizzo politico di governo, con il maggioritario senza partiti la ricettività della classe politica rispetto alle preferenze degli elettori si manifesta nelle forme deleterie del localismo e del neonotabilato. Poco presenti nei rapporti con i cittadini, i deputati mantengono ben stretti i legami con gruppi di interesse decisivi nelle consultazioni in cui il denaro è una risorsa determinante. I governi durano di più nell’età del maggioritario.
E’ difficile che i partiti tornino sulla scena ma altrettanto improbabile è che la personalizzazione e il partito-azienda si istituzionalizzino come forma permanente.

Tratto da RAPPRESENTANZA POLITICA E GOVERNABILITÀ di Laura Polizzi
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