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Il crollo dei regimi comunisti


La crisi del comunismo sovietico aveva prodotto un risultato di eccezionale e irreversibile portata storica: il crollo dei regimi comunisti imposti all’europa dell’est e la conseguente perdita da parte dell’URSS del dominio sull’europa dell’est. Nel dicembre ’81, in Polonia, il generale Jaruzelski, già segretario del partito operaio polacco, aveva attuato un vero e proprio colpo di stato militare, assumendo i pieni poteri e mettendo fuori potere il Solidarnosk, il sindacato polacco. In seguito tuttavia lo stesso Jaruleski aveva allentato le misure repressive e aveva riallacciato il dialogo con la chiesa e con lo stesso sindacato, dialogo però culminato negli accordi di Danzica dell’88 coi quali il capo dello stato si impegnava a una riforma costituzionale che avrebbe consentito lo svolgimento nel giugno ’89 delle prime libere elezioni in un paese del blocco comunista e la formazione di un governo presieduto dall’economista cattolico Tadeusz Mazowiecki. Gli avvenimenti polacchi furono anche una conseguenza diretta del nuovo corso della politica sovietica e rappresentarono l’inizio di una reazione a catena che nel giro di pochi mesi, tra l’89 e il ’90 avrebbe rovesciato gli equilibri politici e strategici di tutta l’europa dell’est. Il primo paese a seguire la Polonia sulla via delle riforme interne fu l’Ungheria ma la decisione più importante e gravida di conseguenze tra quelle assunte dai nuovi dirigenti ungheresi fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l’Austria. A partire dall’estate ’89 migliaia di cittadini della Germania orientale abbandonarono il  loro paese per raggiungere la repubblica federale tedesca attraverso l’Ungheria e l’Austria. La fuga di massa mise in crisi il regime comunista costringendo alle dimissioni il vecchio segretario del partito Erick Honecker. I nuovi dirigenti, con l’avvallo di Gorbacev, avviarono un processo di riforme interne e quindi liberalizzarono la concessione dei visti di uscita e i permessi di espatrio. Il 9 novembre 1989 furono aperti i confini tra le due Germanie, compresi i passaggi attraverso il muro di Berlino. A grandi masse i cittadini tedesco-orientali si recarono all’Ovest in un’atmosfera di festa e riconciliazione che rilanciava il tema dell’unità tedesca. La caduta del muro rappresentò un evento epocale e assurse a simbolo della fine delle divisioni che avevano spaccato in due l’Europa ed il mondo intero all’indomani del secondo conflitto mondiale. Gli avvenimenti tedeschi accelerarono ulteriormente il ritmo delle trasformazioni nell’Europa dell’Est. In Cecoslovacchia una serie di imponenti manifestazioni popolari determinarono la caduta del gruppo dirigente comunista legato alla “normalizzazione” del dopo ’68 e l’apertura di un processo di democratizzazione. In Dicembre il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica lo scrittore Vaclav Havel. In Romania il mutamento di regime ebbe sviluppi drammatici per la resistenza opposta dalla dittatura personale di Nicolae Ceausescu. Abbattuta nel dicembre ’89 da un’insurrezione popolare dopo un sanguinoso tentativo di repressione, Ceaucescu fu catturato e ucciso insieme alla moglie Elena. Alla fine dell’89 anche in Bulgaria fu avviato un graduale processo di liberalizzazione. Un anno dopo il vento delle riforme toccò anche l’Albania, l’ultima roccaforte dell’ortodossia marxista-leniniana in Europa. In Ungheria le prime elezioni libere segnarono l’affermazione di un partito di centrodestra e la sconfitta degli ex-comunisti. In Polonia le elezioni presidenziali del ’90 videro la divisione del movimento Solidarnorsk che comunque portò alla guida dello stato il suo leader storico Walesa. In Bulgaria e Albania gli eredi dei partiti comunisti mantennero il potere nella fase di transizione ma furono sconfitti nelle successive consultazioni politiche. Un discorso a parte va fatto per la Jugoslavia, dove già dall’80, dopo la morte di Tito, era in atto una grave crisi economica e istituzionale. Qui l’esito delle prime elezioni libere del ’90 accentuò le spinte centrifughe già operanti all’interno dello Stato: mentre, infatti, le più sviluppate repubbliche di Slovenia e Croazia davano la vittoria ai partiti autonomisti, in Serbia prevaleva il neo-comunismo nazionalista di Slobodan Milosevic, deciso a riaffermare il ruolo egemone dei Serbi in una Jugoslavia unita. Nella Germania dell’Est le elezioni del ’90 punirono non solo gli ex-comunisti ma anche i socialdemocratici e gli altri gruppi di sinistra. La vittoria andò così ai cristiano-democratici che accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statuale, la Repubblica Democratica Tedesca, ormai privata di ogni legittimità e svuotata di qualsiasi funzione storica. In questa situazione si inserì con grande efficacia l’azione del governo Koll, che riuscì a preparare in pochi mesi l’assorbimento della Germania orientale nelle strutture istituzionali ed economiche della Repubblica Federale Tedesca. In maggio i due governi firmarono un trattato per l’unificazione economica e monetaria; il 3 Ottobre 1990, dopo che il leader sovietico Gorbacev aveva dato il suo assenso alla riunificazione, entrò in vigore il vero e proprio trattato di unificazione e la Germania tornò ad essere uno stato unitario.

Tratto da PICCOLO BIGNAMI DI STORIA CONTEMPORANEA di Marco Cappuccini
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