Skip to content

Il fronte capitalista postbellico


 La classe imprenditoriale postbellica uscì intimorita dallo spettro della Resistenza e della rivoluzione sociale, spingendo con veemenza per una decisa e prolungata presenza statunitense sul territorio a fini di deterrenza. Gli imprenditori italiani erano meno compromessi di quelli francesi e ben presto le accuse di collaborazionismo furono giustificate dallo stato di necessità, complice anche l'antologico spirito di proteismo dell'italiano. Incoraggiante era pure lo stato delle fonti energetiche e degli impianti industriali, non così compromessi dal conflitto. Tre erano allora i settori dominanti dell'economia industriale italiana: idroelettrica, alimentare e tessile, attorno ai quali si strinsero tutti i membri più conservatori; i più progressisti occupavano i settori che presto sarebbero diventati punte di diamante del tessuto economico italiano: metallurgia (Olivetti, Fiat, RIV – Roberto Incerti Villar Perosa), gomma (Pirelli), e acciaio (Finsider). Il progressismo dei più piccoli industriali andava inteso come stato di necessità per affrontare una situazione di cambiamento vitale per il loro futuro, non certo per presunte tendenze democratiche, e la cosa fu chiarissima nel compattamento omogeneo che tutti gli imprenditori mostrarono attraverso Angelo Costa, allora presidente di Confindustria, il quale pretendeva due risultati irrinunciabili al di là di ogni tipo di sistemazione postbellica decisa:
- rientrare in possesso in maniera totalmente libera del controllo sul luogo di lavoro
- deciso e incondizionato laissez faire dello Stato nei confronti delle decisioni della classe capitalista, che non doveva minimamente essere condizionata da ipotetiche pianificazioni
statali di marca socialista
- libertà di licenziamento incondizionato
- nessun progetto di partecipazione o di controllo operaio.
Gli imprenditori non guardavano di mal occhio solo la classe operaia ma anche lo Stato, visto come istituzione ambigua e non sufficientemente schierata in difesa dei loro interessi. Se durante il ventennio fascista lo Stato era stato garante del silenzio operaio, adesso assumeva contorni sfumati di nebbie socialiste; del resto gli esempi di statalizzazione dell'industria di Attlee in Inghilterra e di Stalin in Russia non invogliavano gli imprenditori ad intavolare un maggiore dialogo. Fu proprio lo spauracchio socialista che orientò gli imprenditori verso la DC, che aveva scalzato il troppo elitario Partito Liberale nel ruolo di guida e riferimento degli elettori imprenditori.
Ma non solo. La DC lavorava attraverso la Coldiretti e le ACLI, creando un sucesso una base di massa tra i contadini proprietari e i lavoratori cattolici. Riaffermava la morale cattolica, prometteva di salvaguardare la proprietà, la libera iniziativa, i consumatori e i produttori. Rivolgeva soprattutto un appello speciale ai valori familiari, in una società dove quasi ovunque la famiglia era il nerbo dell'attività economica.
Alcide De Gasperi, fondatore e leader della DC, dovette certamente scontrarsi con visioni interne diverse, dagli ultraconservatorismi della Chiesa Romana ai progressismi di Giuseppe Dossetti, ma fu alla fine il suo centrismo a vincere, non ultimo grazie alla sua strenua attenzione nei confronti dell'imprenditoria, alla sua solida alleanza con gli USA della dottrina Truman – che da lì a poco avrebbero varato il Piano Marshall – che fece arrivare in Italia parecchie centinaia di migliaia di dollari laddove l'URSS del partito comunista non poteva reggere certamente il paragone.

Tratto da STORIA CONTEMPORANEA di Gherardo Fabretti
Valuta questi appunti:

Continua a leggere:

Dettagli appunto:

Altri appunti correlati:

Per approfondire questo argomento, consulta le Tesi:

Puoi scaricare gratuitamente questo appunto in versione integrale.