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La rivolta dei Taiping - il resto della dinastia Ming

La rivolta dei Taiping - il resto della dinastia Ming

Il regno di Qianlong (1736-1796) rappresenta forse l’ultimo periodo glorioso della millenaria storia del Celeste Impero, l’ultimo che vide l’imperatore assoluto padrone del campo e l’ingerenza straniera negli affari interni cinesi praticamente nulla. L’ultimo anche di grande benessere economico, potenza, ed efficienza delle strutture statali. 

Tuttavia come si è visto nel precedente capitolo, il diffuso fenomeno corruttivo era già ampiamente radicato durante gli ultimi anni del regno di Qianlong, e all’imperatore non vanno risparmiate critiche per non aver cercato di combattere l’immoralità dilagante. Connesse al problema della corruzione furono infatti le prime rivolte (scoppiate negli ultimi anni del XVIII secolo), quando il malfunzionamento della macchina statale aveva portato al decadimento del sistema di controllo delle acque, con le inevitabili ripercussioni in campo agricolo. Una più ampia serie di sollevazioni si ebbe durante la prima metà del XIX secolo, quando alla situazione di debolezza dell’apparato statale si sommarono gli effetti negativi prodotti dal commercio dell’oppio (corruzione e svalutazione del ra-me a vantaggio dell’argento). Tale situazione di forte disagio economico si fece ancora più stingente dopo la firma del trattato di Nanchino, quando l’economia cinese fu improvvisamente aperta al commercio internazionale, e quando le autorità imperiali apparvero svilite nel prestigio per via della sconfitta subita contro i barbari stranieri. Protagonista di questo momento è la rivolta dei Taiping, che per estensione e virulenza è paragonabile ad una tentata rivoluzione. 

Base sociale della rivolta erano i battellieri e i trasportatori della Cina centrale e sud-orientale, rovinati dallo spostamento a Shanghai del grande commercio internazionale (che prima era concentrato a Canton), e dai contadini della stessa area ridotti alla miseria dall’apprezzamento dell’argento provocato dall’eccesso di importazioni. Capo carismatico della rivolta era Hong Xiuquan (1813-64), che entrato in contatto con la dottrina cristiana, aveva elaborato una sua filosofia religiosa con forti sincretismi cristiani, buddisti, taoisti e menciani, proclamandosi fratello minore di Gesù Cristo e fondando la società degli Adoratori di Dio. Raccogliendo adepti fra tutti gli strati poveri della società, la setta iniziò ad opporsi alle milizie dei proprietari terrieri e, dal 1849, anche allo stesso esercito imperiale, arrivando a conquistare l’importante città di Nanchino, che venne eretta a capitale del Regno Celeste della Grande Pace. Il nuovo stato resistette all’esercito imperiale dal 1853 al 1864, arrivando a comprendere le importanti province del Anhui, Jiangxi, Zhejiang e parte del Guangxi, dell’Hunan e del Hubei. La stessa Pechino arrivò ad essere minacciata. Nei territori di loro pertinenza gli insorti vararono rivoluzionarie riforme agrarie arrivando a sopprimere il commercio privato per praticare la comunione dei beni. Sul piano politico invece, la conseguenza più duratura della rivolta, fu l’idea nazionalista secondo la quale i Ming dovevano essere scacciati in quanto originari della Manciuria e non della Cina propriamente detta (razza Han). 

Alla fine, la rivolta Taiping fu sconfitta dai Ming, ma le cause dell’ingloriosa fine della sollevazione sono da attribuire agli sbagli degli insorti piuttosto che alle armate imperiali. Oltre a errori di carattere strategico, come la mancata occupazione di Shanghai o il rifiuto dell’alleanza con i Nian (una popolazione che si era ribellata nel Nord), il fronte Taiping non seppe essere unito al suo interno e neppure conquistarsi l’appoggio dei poteri locali e della gentry, che preoccupata per la sua eterodossia preferì la sicurezza e la moralità dei Ming. Fu infatti la gentry che in molte provincie conquistate dagli insorti, seppe, con sue risorse, arruolare milizie e sconfiggere i ribelli. La dinastia -avvalendosi anche dell’aiuto francese e britannico (che tuttavia non fu decisivo)- fece il resto e, infine, procedette alla repressione dei rivoltosi superstiti. 

LE ALTRE RIVOLTE POPOLARI

Nello stesso periodo dell’insurrezione dei Taiping, l’Impero fu scosso da molte altre rivolte piccole e grandi. Nel periodo che va dal 1860 al 1885 ne sono state documentate più di cento, di cui una cinquantina nello Hunan, quattordici nello Hubei, dieci nel Jiangxi, cinque nello Henan. L’impatto delle rivolte nella vita civile ed economica dell’Impero fu ampissimo: devastazioni, abbandono delle infrastrutture per il controllo delle acque, scontri fra gli eserciti ribelli e quello imperiale, epurazioni e repressioni al termine di ogni rivolta sedata. La regione più colpita fu quella del medio e basso Fiume Azzurro, la più ricca e progredita della Cina, che subì gravi perdite economiche e la cui popolazione diminuì notevolmente. 

Lo scoppio quasi contemporaneo di così tanti focolai d’insurrezione costituì dunque un notevole aggravio alla già delicata situazione economia e sociale dell’Impero, oltre a ledere ulteriormente nel prestigio la dinastia mancese, già umiliata dal confronto con i barbari occidentali. Se essa resse agli affronti fu soprattutto perché le varie rivolte furono ognuna a sé stante e perché l’eterodossia o l’ambiguità dei loro proponimenti (spesso vagheggiamenti di redistribuzione delle terre) incontravano l’opposizioni delle classi dominati e della gentry. 

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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