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La letteratura secondo Ferroni



Ferroni apre questo suo contributo al dibattito critico dichiarando subito la sua posizione, di fronte ad un paesaggio multiforme e ambiguo di prospettive e metodi, che hanno, a sua detta, sancito una sorta di sovrapposizione della teoria alla letteratura. Non si tratta di guardare ai libri con l’occhio della passione – o con gli occhi di un romantico dichiarato come Harold Bloom, rievocato più volte in queste pagine – e di fare a brani le varie, eppur valide, esperienze teoriche degli ultimi decenni, ma, secondo Ferroni, di prendere una posizione certa, con la consapevolezza che «in questo contesto non è certo sufficiente piangere sulla “crisi”, rintracciarne le condizioni: è però necessario avvertirne tutta la profondità, prendere coscienza del fatto che siamo comunque chiamati a fare qualcosa di diverso da quello che abbiamo imparato a fare». Dall’aspirazione alla totalità in cui inserire l’opera letteraria e dall’angoscia della quantità di libri da leggere per comprendere il mondo – immagini, queste, inquietanti per gli studiosi – il critico può liberarsi scendendo in fondo alla crisi e tuffandosi nel mare della diversità. Il professore vuole dirci che la critica letteraria non può, oggi, prescindere «da una eclettica curiosità verso tutto ciò che è proposto dalla cultura contemporanea»; vuole farci capire che è necessario un ritorno alla centralità dell’esperienza letteraria, troppo offuscata da una teoria che guarda fuori dalla letteratura, che aspira al connubio con psicanalisi, antropologia, filosofia, femminismo, eccetera, ovvero con tutto ciò che passa sotto il nome di Cultural Studies; vuole invitarci a «sentire la letteratura come una “religione”, una religione mondana, laica e razionale, che si ostina a far brillare la sua luce in un mondo sempre più minacciato dal nesso perverso tra la stupidità e la potenza, tra le fedi più ottuse e le tecnologie più sofisticate». C’è, come si vede, molto su cui riflettere. Apparentemente Ferroni sembra seguire la strada di George Steiner (quello di Vere presenze) e di Bloom (quello de Il canone occidentale): con loro può condividere il bisogno di ritornare ai classici, di smetterla con la letteratura parassitaria e secondaria dei saggi e dei commenti che aggrediscono il testo e lo imprigionano in schemi predeterminati. Ma qui sta il punto: non è un rifiuto per la letteratura secondaria che l’autore vuole esprimere, ma una diffidenza nei confronti di quelle griglie interpretative che nascono fuori dalla letteratura e vogliono rientrarvi per fare chiarezza. Da qui il suo modo di affrontare la crisi – un modo quasi prossimo a quello di Remo Ceserani, teorico dell’eclettismo nella celebre sua Guida allo studio della letteratura – e di affidarsi ad un eclettismo diffidente, basato sul dialogo e sul conflitto, sull’elemento dialettico del dissenso e dell’analisi.
Anche per queste motivazioni, secondo Ferroni «oggi più che mai la critica letteraria ha bisogno di uno scambio con la filosofia», una filosofia che non può coincidere con la teoria della letteratura. C’è bisogno dell’estetica: e non a caso il riferimento del libretto e delle ipotesi critiche di Ferroni è al pensiero di Paul Ricoeur, colto nel libro La mémoire, l’histoire, l’oubli, del 2000. Il filosofo fornisce i termini essenziali per la ripresa del cammino critico, ad iniziare da un rapporto più fecondo della letteratura con la memoria, col suo essere deposito di altri testi e di altre idee, a finire con l’elogio di una critica “ottativa”, fatta di scelte rivolte ad un altrove da conoscere e capire.

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