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Aristotelismo naturalistico di Pomponazzi




Pomponazzi rivendica con forza la netta autonomia della ricerca filosofica dalla fede e dalla verità rivelata. La filosofia non può essere in alcun modo un preambulum fidei come pretendeva la scolastica. Pomponazzi sostiene che la filosofia può al massimo giungere a un certo “profumo di immortalità”. L’immortalità non può essere dimostrata razionalmente al punto di diventare un presupposto saldo per la fede. Anche se l’uomo per le sue capacità intellettive è superiore agli altri esseri perché capace di conoscere l’universale, ciò non prova affatto una separatezza dell’anima dal corpo. Certo l’anima non si riduce al corpo, ma in qualche misura da esso dipende. Per questo motivo ciò che rimane data la sua ambigua posizione di “confine” è la speranza di immortalità. Ma questo certamente non fa perdere ogni tipo di fondamento per la morale. Al contrario vizio e virtù sono premio e pena a se stessi in questa vita (anche se viene meno la prospettiva dell’eterno). Il più grande tra questi è la tranquillità d’animo o la sua lacerazione in dubbi. Chi non sa gestire il proprio agire morale secondo natura autonomamente, deve essere guidato da un legislatore che mira alla verità e al bene comune. Nella sua opera più celebre, il De incantationibus, egli non solo riprende la dottrina della doppia verità, ma sviluppa la teoria delle “religioni come favole per governare i popoli” che si intreccia con quella “dell’oroscopo delle religioni” secondo cui le religioni seguono delle leggi naturali legate agli astri; il loro nascere e perire è determinato da essi. Il cristianesimo sarebbe prossimo al tramonto. Egli rifiuta inoltre l’idea che esistano cause sovrannaturali degli eventi. Addirittura Dio stesso è sottomesso all’ordine naturale, il quale può intervenire solo indirettamente, agendo sui corpi celesti che a loro volta influenzano il mondo. Ogni miracolo che sconvolgerebbe gli eventi naturale è allora di per sé impossibile, e quindi riconducibile ad una causalità necessaria.

Tratto da STORIA DELLA FILOSOFIA MODERNA di Carlo Cilia
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