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La fotografia negli anni ’60


Negli anni ’60 la fotografia non viene più considerata uno strumento per riflettere sul mondo, ma diventa una sorta di “magazzino” da cui tratte motivi iconografici.
La fotografia è infatti nel frattempo diventata in misura sempre maggiore uno strumento di massa, grazie anche alla diffusione della pellicola Kodak e alla commercializzazione della nuova Istamatic Kodak nel 1963.


In questo periodo si diffonde anche una fotografia che usa il mezzo di espressione come:
→ strumento di registrazione degli eventi
→ veicolo di riflessione sullo statuto linguistico della fotografia stessa.

Nel 1962, Ed Ruscha aveva realizzato una serie di scatti fotografici dedicati a 26 stazioni di servizio del sud degli Stati Uniti, che confluiscono poi nel libro fotografico intitolato 26 stazioni di servizio.
La sua proposta ha a che fare con l’idea di fotografia come archivio.

Nel 1966, pubblica invece il libro fotografico intitolato Every building on the sunset strip (sunset strip era la zona più rinomata del Sunset Boulevard).
Nel suo sviluppo il libro assume l’aspetto di una striscia di carta, altezza 18 cm e con un’estensione di 8 metri e venti, ripiegata a fisarmonica.
Il sud di Sunset Strip è disposto in prossimità de margine superiore e il nord in prossimità del margine inferiore.
Ed Ruscha aveva realizzato questi scatti in successione attraverso l’ausilio di un dispositivo apposito mentre guidava la propria auto. Egli sceglie di fotografare quando il sole è più alto, in modo tale da far scomparire quasi totalmente le ombre e far prevalere un senso di neutralità.

Più o meno nello stesso periodo possiamo collocare l’attività dei coniugi Bernd e Hilla Becher, protagonisti assoluti della seconda metà del XX secolo sia sul piano della fotografia sia come esponente della cosiddetta “Scuola di Dusseldorf”.
Il loro intento è un intento catalogatore, cominciando da una campagna di documentazione degli insediamenti industriali in Germania nel 1959.

Nel 1963 tengono una serie di loro personali.
Per la loro attività scelgono tipologie di edifici caratterizzati da medesima funzione e impatto visivo, concentrandosi su una civiltà industriale in via di sparizione: siamo infatti nel periodo di passaggio da un’economia industriale a un’economia post-industriale.

A differenza di Ed Rusha, la loro attività non è priva di ambizione sul piano qualitativo ed estetico, seguendo una serie di regole e convenzioni precise:
• I soggetti si trovano tutti alla stessa distanza dall’obiettivo.
• Stesso orientamento.
• Assenza di distorsioni prospettiche.
• Neutralizzazione del cielo, che appare sempre sullo sfondo.
• Assenza totale della figura umana.

Tra i loro libri fotografici assume particolare importanza il libro fotografico intitolato Sculture anonime, che contiene una selezione di immagini scattate nel corso del decennio suddivise in 7 capitoli, uno per ogni tipologia di costruzione.

Anche con il fotografo Duane Michals la fotografia ha ormai abbandonato completamente la sua prospettiva di partenza, cioè di testimonianza del reale, per collocarsi invece al confine tra realtà e finzione.
Nel 1973, Michals pubblica il suo libro fotografico intitolato Things are queer, all’interno di cui il fotografo abbandona la foto singola in favore delle sequenze fotografiche: sembra di trovarci davanti a 9 tavole diverse che illustrano una storia, evidentemente già allestita, in cui l’immagine di un bagno all’inizio funge anche da chiusura e la gamba a grandezza naturale posta contro il bagno in miniatura ci immerge in una situazione di finzione.

Tratto da STORIA DELLA FOTOGRAFIA di Roberta Carta
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