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Carlo Goldoni – La ragazza e la matrigna


Benché si trovino nell'opera di Goldoni alcuni accenni al problema della lingua, non si può certo dire che egli ne fosse assillato. Eppure la rappresentazione scenica richiedeva, nella situazione italiana, uno sforzo notevole di approssimazione. Non esistendo in Italia una vera lingua comune di conversazione, un autore teatrale che volesse simulare il parlato senza imparare la lingua toscana viva era costretto a ricorrere al dialetto, oppure a impiegare una lingua mista, in cui entrassero elementi diversi, dialettismi, francesismi, modi colloquiali di vario tipo. Goldoni optò via via per per l'una o l'altra soluzione: scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano e infine scrisse anche in francese, essendosi trasferito a Parigi. Non ambì mai a essere un teorico dei problemi linguistici del teatro. Anzi, dedicò semmai a questo tema meno spazio di quanto sarebbe legittimo aspettarsi. Come si vede, però, l'uso del dialetto, che in scena non costituisce un problema, richiede qualche temperamento in occasione della trasposizione scritta, a stampa, delle commedie. Sparisce il tradizionale bolognese del dottore avvocato; il dialetto veneziano resta, ma corredato di una serie di chiose per fare intendere anche ai non veneti certe particolarità che altrimenti andrebbero perdute; vengono così spiegati in nota gli elementi di un ipotetico italiano settentrionale in cui le careghe stanno al posto delle sedie, la barba per zio. A parte l'uso del dialetto puro, che Goldoni padroneggiava alla perfezione, e con il quale era perfettamente in grado di rendere qualunque ambiente sociale, da quello popolare a quello borghese, ci interessa qui stabilire quali sono alcune caratteristiche dell'italiano di Goldoni. Quello perseguito dall'autore, non esistendo un vero italiano della conversazione, finisce per essere una sorta di fantasma scenico che ha spesso la vivacità del parlato ma si alimenta piuttosto dell'uso scritto non letterario accogliendo in copia larghissima venetismi, regionalismi lombardi e francesismi. Dialetto e lingua non vanno comunque visti necessariamente in opposizione e in certi casi addirittura si alternano e confondono in una stessa battuta. Non sarebbe esatto il giudizio di chi celebrasse la vivacità delle commedie dialettalo di Goldoni e avanzasse riserve nei confronti dell'italiano di quest'autore, accusandolo di povertà e approssimazione. L'italiano teatrale di Goldoni, è vero, è assolutamente estraneo a preoccupazioni di purezza: una lingua non elegante, ma viva, per quanto ciò fosse possibile nell'Italia del 1700 anche innovativa, specialmente sul piano della sintassi, che va contro le tendenze dell'accademia italiana dell'epoca. Domina una sintassi paratattica, giustappositiva, asindetica, in cui affiorano caratteri del parlato e del registro informale, rimasti invece sempre ai margini della norma grammaticale, come le ridondanze pronominali o la dislocazione a sinistra.
La prima scena dei Rusteghi si apre col più bell'inizio di commedia che forse sia mai stato scritto. Con le parole di Momigliano: Com'è colto il principio della conversazione, il silenzio rotto dopo aver seguito a lungo, tacitamente, il corso dei propri pensieri! Ci fa indovinar le riflessioni che precedono l'aprirsi della commedia e ci fa veder Lucia che tenta, timidamente, l'animo della matrigna. Il Goldoni non fu mai così grande come qui.
La scena mostra come i due personaggi siano usi a convivere strettamente e come tuttavia restino nella loro diversa realtà personale, come sembra già indicare la secchezza delle battute, e più chiaramente la diversità dei pronomi allocutivi, il voi allora più confidenziale di Margarita a Lucieta e il lei più formale di questa a quella. Ma la grandezza dell'attacco sta appunto nel rapporto fra parole e silenzio, un silenzio che forse va presupposto fra le stesse proposta e risposta iniziali, in una situazione di lenta consuetudine di vita; ma un silenzio che sta anche prima della battuta di Lucieta, e non solo perché è da credere che la ragazza abbia pensato a tentennato a lungo prima di affrontare lo scabroso tema del Carnevale; ma anche perché quella battuta apre la commedia, rompendo il silenzio e l'attesa, estranei al testo, che precedono l'alzarsi del sipario. Dunque Goldoni ha unificato genialmente il silenzio della sala prima dell'apertura del gioco teatrale col silenzio che sarà trascorso fra le due donne prima che la più giovane si decida a romperlo, tastando il terreno. Ha insomma trasformato un silenzio che precede il testo in un silenzio presupposto dal testo.C'è ovviamente una parola che domina la scena nelle sue varie forme, ed è maridar, speranza non tanto d'amore quanto di liberazione dalla tirannia paterna, al punto che su essa sono costruite due battute quasi identiche ma con speranzoso crescendo, di Lucieta, alle rr. 40 e 42.
Maestro del dialogato, Goldoni lo conduce anche qui con arte straordinaria. Proprietà delle botte e risposte, battute brevissime che dicono e non dicono, intercalare e battute anaforiche.

Tratto da STORIA DELLA LINGUA ITALIANA di Gherardo Fabretti
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