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Il mito di Atlante: evoluzione di una terapia

Il mito di Atlante: evoluzione di una terapia    


Caso clinico la famiglia Penna: madre vedova e 8 figli (di cui 3 sposati), Lucio il facente papà, Dino il paziente designato ha già presentato una crisi dissociativa un anno prima, è stato ricoverato in ospedale psichiatrico per stato confusionale, problemi di droga e fughe non ben precisati.    
Il terapeuta esordisce raccogliendo da più parti informazioni senza introdurre antagonismi nell’immagine che la famiglia offre di sé, indagando sulla pertinenza o meno della funzione di padre vicariante svolta da Lucio: chi la sostiene, chi la contrasta, e come.    
Il terapeuta comincia a stabilire delle differenze tra il padre biologico e lo pseudo-padre che si occupa solo dei “piccolini”. Lucio comincia ad essere svalutato, la dichiarazione di impotenza rispetto a un potere reale avuto da Lucio in famiglia permetterà anche alla madre di manifestare la propria stanchezza per aver cercato di fare da padre e da madre dopo la morte del marito, senza ricevere riconoscenza dai figli.    
Il risentimento di Lucio fa da specchio al risentimento della madre nel non sentirsi sostenuta e apprezzata per i servizi resi. Lucio è fallito non realizzandosi né all’esterno, né all’interno della famiglia. Autoeleggendosi alla funzione di padre ha tentato un’impresa impossibile: quella di riempire il grande vuoto lasciato da quest’ultimo, non solo amato in vita, ma idealizzato dopo la morte prematura, un tentativo in cui anche la madre è fallita, recitando ritualmente, giorno dopo giorno, la parte della donna dura e incapace di andare incontro ai figli.    
Il terapeuta coglie il messaggio di incompetenza e di estrema disorganizzazione trasmesso dalla famiglia e comincia a cercare una prima ipotesi plausibile spostando la sua indagine su un piano trigenerazionale. Si scoprirà così che la madre con il suo comportamento attuale “custodisce” un’eredità: il rancore che le proviene  dalla sua famiglia d’origine, che non ha avuto padre (il padre picchiava la moglie). Inoltre le testimonianze degli zii consentono alla madre di apparire come donna chioccia e non più roccia, e cominciano a far luce anche sul marito morto, visto ora sotto sembianze umane.
Soltanto dando corposità al vuoto che invano Dino dall’interno e Lucio dall’esterno cercano di colmare, e mettendo in discussione la figura del padre attraverso la madre, sarà possibile al terapeuta aiutare ciascuno a ritrovare il proprio spazio di responsabilità e di autonomia.    
Sembra che la trama mitica familiare assegni a ogni maschio il compito paradossale di affermare la propria esistenza solo come simbolo, non già come persona reale.    
Il terapeuta userà sé stesso come modello di comportamento flessibile, entrando e uscendo dalla stanza di terapia, per rappresentare simbolicamente la “presenza nella non-presenza” che finora ha permesso al mito di perpetuarsi. A essa viene contrapposta una modalità nuova rispetto alla conformazione rigida della famiglia: l’aiuto come negoziato tra le parti.    
Quanto più Dino mantiene una situazione di non-definizione dei sintomi (es. uso della droga), tanto più il terapeuta fa richieste concrete, assegnando compiti strutturali che tendono a ridefinire i confini tra le generazioni. Tale ridefinizione è possibile attraverso l’opera degli zii come consulenti per una riorganizzazione emotiva del gruppo. La loro presenza permette di ricreare linee di autorità più adeguate e nello stesso tempo di proporre un impegno nel concreto che sottolinei una ritrovata unità all’interno della famiglia estesa. La madre viene decentrata dal suo ruolo di responsabilità e mandata 20 giorni in vacanza dal fratello, Elena e Lucio operano come genitori esecutivi sotto la supervisione degli zii.
L’assenza di Dino alla seduta assume un valore positivo: se finora egli è stato usato come copertura dei conflitti familiari, la sua assenza potrà aiutare a scoprire l’imbarazzo che ciascuno prova adesso che si sa chi era veramente il padre (un uomo con pregi e difetti, in relazione e in contrasto con gli altri). La famiglia ora non può non guardare in faccia una realtà più contraddittoria, con minori certezze, ma senza più idealizzazioni o svalutazioni eccessive.    
La presenza di Dino nell’ottava seduta (in seguito a lettera del terapeuta) conferma la sua disponibilità a fungere da regolatore del processo terapeutico. Rivolgendosi a lui come tramite comunicativo dell’intero sistema terapeutico, il terapeuta chiede che venga agito in seduta il dramma-rito del pranzo che si consuma in famiglia. A pranzo, si sa, scoppiano le maggiori tensioni tra Lucio e i fratelli e tra la madre e Dino. La scena diventa esilarante: la tensione si infrange tra lo scoppio generale di risate dei protagonisti, neo-attori che, oltre a recitare una parte, si divertono a interpretare ciascuno e tutti insieme il proprio ruolo abituale. Il contesto da tragico diventa farsa, grazie all’integrazione associativa del gioco. La messa in scena del rituale abituale del conflitto che scoppiava e continua a scoppiare all’ora di pranzo riecheggia non solo le liti per i soldi tra madre e padre, ma rievoca anche la morte senza pace del padre, inducendo finalmente Lucio a rivelare il segreto raccolto sul letto di morte dal padre: “Se io riesco a campare, nessuno più mi vedrà, nessuno più avrà aiuto da me, se riesco a vivere”.    
A 8 mesi dall’inizio della terapia, la proposta del gioco delle 3 carte da parte del terapeuta si pone come una modalità per valutare i risultati finora conseguiti e in particolare per affrontare il complesso problema della scelta. Tutti, Dino compreso, devono puntare ogni volta dei soldi su una delle 3 carte. Sulle carte, anziché i segni tradizionali, è scritto “Dino è piccolo” “Dino è pigro” “Dino è pazzo”. Tutti giocano e tutti si divertono puntando soprattutto su “Dino è pigro”: il gioco delle 3 carte, restringendo il campo delle probabilità e amplificando il tema dell’imbroglio e della complicità, è preludio metaforico a problemi di scelta e a definizioni più genuine, che restituiscono a Dino la carta dell’adolescenza e alla famiglia uno sviluppo meno fusionale.    
Nella decima seduta il terapeuta dichiara di aver bisogno di aiuto e chiede la consulenza a Whitaker. Ben presto la consulenza diventa una coterapia: il legame tra i due terapeuti, il contenuto verbale, oltre che analogico, delle transizioni e la presenza della traduttrice accrescono la distanza emotiva della famiglia e permettono un livello di meta comunicazione più alto.    
Tema centrale è il funerale della mamma-mito; è in questione la lapide sulla sua tomba, se si tratterà di un loculo singolo o di un ossario per tutta la famiglia. Per celebrare il rito del funerale della mamma sono necessarie alcune condizioni. La prima è che Gino, il figlio maggiore assente per la terza volta, venga visto come la persona che la famiglia ha scelto per non cambiare. Le sue assenze, al contrario di quelle di Dino, sono un messaggio di mantenimento del mito nella sua staticità. Nelle sequenze interattive presentate, attraverso il gioco crociato e altamente provocatorio di rapida composizione e scomposizione delle immagini, basato sullo spostamento continuo e del tutto imprevedibile delle rappresentazioni simboliche, viene esplicitato in modo quasi epigrammatico lo stato esistenziale di precarietà della famiglia, sospesa tra storia e mito: tanto più grandi gli eroi, tanto più miseri i viventi.    
Whitaker prima e Dino poi (in una seduta successiva) offrono al terapeuta l’occasione per far scendere gli dei dal piedistallo, proponendo la necessità di demitizzare credenze primitive e di debellare tabù, mettendo in luce il problema umanitario degli organi astratti e concreti di Dino come confusione tra tempo e mito, vuoti reali e malattie immaginarie.    
Con un’immagine mitologica il terapeuta vuole sottolineare il carattere circolare della patologia familiare che ora definisce in termini di idealizzazione di una funzione riparatrice che si è perpetuata di generazione in generazione. Pazzo è colui che, come l’Atlante della mitologia, si intromette nelle dispute che non gli competono, nella vana illusione di sanare ciò che invece lo trascende. E’ il caso specifico di Dino, che rinuncia a crescere come persona per identificarsi con la funzione di chi cerca di legare ciò che non è saldabile, portandone il peso sulle proprie spalle.    
Rispetto a mandati legati a lealtà invisibili possiamo vedere la madre come colei che si è sposata giovanissima per riparare alla vergogna di un padre che ha abbandonato la famiglia e si è immolata nel ruolo esemplare di madre per antonomasia; il padre (morto) come il figlio unico che ha dovuto procreare figli in serie, senza poterli mantenere economicamente, perché la madre aveva avuto la vergogna di non riuscire ad avere figli.    
Per ricatturare il significato e il valore del tempo nel contesto terapeutico, come palestra di apprendimento, sarà utile servirsi di un mappamondo reale. Questo fungerà da oggetto intermedio tra le responsabilità reali e la percezione ancora nebulosa delle funzioni-delega avallate da ciascun componente della famiglia. La reciprocità del processo di fuga dalla realtà, per cui ciascuno evita di confrontarsi con la propria responsabilità, appare evidente nel momento in cui il terapeuta chiede a Dino se è pronto a restituire agli altri i territori che a loro appartengono.    
Amplificazione e metonimia sono gli ingredienti usati in questa seduta. Ai diretti interessati è riservato il compito di scoprire la giusta dimensione delle cose. Nel rifiuto di continuare a considerare vera per sé la leggenda di Atlante, ovvero nella sua non-accettazione di perpetuare l’analogia con l’eroe della favola mitologica, risiede la salvezza di Dino e la sua capacità di autodeterminarsi. Se Dino smetterà di essere un gigante, la madre non potrà più continuare a essere un’eroina e nessuno degli altri potrà più recitare la parte di chi è il fallito oppure il solo vincente della famiglia; incluso il padre, che viene reincorporato nell’affetto e nella coscienza di tutti, in una dimensione umana più tangibile.    
Contrapponendo al mito del padre (in realtà mezzo uomo) il mito di Atlante (mezzo dio), il terapeuta riesce a meta comunicare sulla funzione protettiva e sovrumana di Dino, che ha creduto di poter fare da elemento di sutura.    
Se l’immagine del padre morto viene riconosciuta come irreale, perché finalmente se ne può sentire la mancanza fisica provandone dolore, anche la funzione del gigante-Aliante, impersonata da Dino e interpretata attraverso un comportamento psicotico, verrà riconosciuta come inutile. Ciò darà spazio ai suoi bisogni di adolescente in fase di svincolo, che chiede per sé uno spazio reale di sviluppo dentro e fuori della propria famiglia.
Nella tredicesima seduta la famiglia arriva con tanti pacchetti per i nipoti in vista di una festa e offre al terapeuta lo spunto per introdurre una dimensione nuova: quella della quarta generazione che rinvigorisce le risorse della famiglia attraverso uno spostamento generazionale: l’esplorazione si sposta cosi da un rapporto tra mamma onnipresente e figli onnidipendenti a quello tra nonna e nipoti.    
Valutazione a distanza di tempo    
A un anno di distanza dall’ultima seduta il terapeuta ha un colloquio telefonico con la madre. La signora Penna si dichiara contenta di essere stata chiamata, Dino non ha più avuto crisi psicotiche o ricoveri ospedalieri, Lucio ha trovato lavoro e pensa di sposarsi, Livio e Andrea hanno completato gli studi superiori.    
Due anni dopo il dottor Andolfi chiama di nuovo e parla prima con Dino poi con la madre, Dino è alla ricerca di un lavoro stabile.  

Tratto da TEMPO E MITO IN PSICOTERAPIA FAMILIARE di Antonino Cascione
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