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Teorie sul lettore estromesso dal testo letterario


Come fatto fino ad adesso, per comprendere il ruolo del lettore partiremo dall'analisi delle due tesi contrapposte: quella che ignora del tutto il lettore, e quella che lo valorizza, o lo mette addirittura in primo piano, identificando la letteratura con la lettura.
La lettura messa fuori gioco
Un esempio non troppo lontano della controversia sulla lettura è, ad esempio, quella tra impressionismo e positivismo alla fine del XIX secolo. La critica positivista scientifica (Brunetiere) e storica (Lanson) polemizzava con la cosiddetta critica impressionista (quella ad esempio di Anatole France) che aveva l'abitudine, settimana dopo settimana, di esprimere le proprie sensazioni sulla letteratura nelle recensioni dei giornali e delle riviste. Anatole France faceva una critica basata sulla simpatia, sulle proprie reazioni, sulla propria esperienza, ma proprio per questo gli si rinfacciava la mancanza di distanza, oggettività e metodo. Brunetiere e Lanson, con la loro polemica, rivendicavano la necessità di sfuggire al lettore ed ai suoi capricci, di inquadrare le impressioni tramite la disciplina, di raggiungere l'obiettività parlando dell'opera in sé. Un altro rifiuto della lettura espresso in quel periodo fu quello di Stephane Mallarmè, che in Quant au livre, affermava che il libro è un oggetto che esiste in se stesso, slegato sia dall'autore sia dal lettore, indipendenti nella loro purezza di oggetti autonomi, necessari ed essenziali.
Pur nelle loro diverse premesse sulla intenzione d'autore storicismo e formalismo si sono da tempo accordati per bandire il lettore, bando poi ratificato in maniera esplicita dai New Critics americani a cavallo tra le due Guerre. L'opera è una unità organica autosufficiente di cui conviene fare una lettura ravvicinata (una close reading) cioè una lettura idealmente oggettiva, descrittiva, attenta ai paradossi che permeano questo sistema chiuso e stabile, questo monumento verbale allo statuto ontologico, separato dalla sua produzione e dalla sua ricezione, come già diceva Mallarmè. Il loro motto era “Una poesia non deve significare, ma essere” e raccomandano la dissezione del poema in laboratorio, onde coglierne i sensi virtuali. I New Critics denunciavano così la cosiddetta illusione affettiva (affective fallacy) dovuta, a loro parere, alla illusione intenzionale da cui pure bisognava staccarsi. L'illusione affettiva, dicevano Wimsatt e Beardsley, è una confusione tra il poema e i suoi risultati, tra ciò che è e ciò che fa. Ma anche tra i New Critics vi fu chi non ignorò l'immenso problema che la lettura empirica poneva allo studio letterario. Parliamo di Ivor Richards, filosofo, e del suo Fondamenti della critica letteraria, in cui iniziava a distinguere i commenti tecnici (che vertono sull'oggetto letterario) dai commenti critici (che vertono sulla esperienze letteraria), approvando questo secondo tipo in base al modello di Matthew Arnold che faceva della letteratura, sulla scia della critica vittoriana, il catechismo morale della nuova società democratica, in quanto sostituta della religione. Richards subito dopo adotta un punto di vista rigorosamente anti soggettivo, rafforzato dagli esperimenti sulla lettura che poi pubblicherà in Practical Criticism. Gli esperimenti non fecero inferire a Richards un radicale relativismo, uno scetticismo epistemologico assoluto, a proposito della lettura, come faranno invece adepti della ricezione come Stanley Fish. A dispetto dell'evidenza, Richards conservava la convinzione che l'educazione avrebbe potuto eliminare gli ostacoli e aprire l'accesso ad una piena e perfetta comprensione di un'opera... in vitro. Le interpretazioni sbagliate e i controsensi, dice riferendosi ai suoi esperimenti, non sono incidenti ma ciò che accade quando si legge una poesia. Di fronte al testo la lettura in genere si arena. Richards è uno dei pochi che abbia osato fare questa catastrofica diagnosi. Ma non si arrese. Invece di sancire la necessità di una ermeneutica che rendesse conto del controsenso e della interpretazione sbagliata, come fecero Gadamer o Heidegger, riaffermò i principi di una lettura rigorosa, che correggesse gli errori più frequenti. Anche se la poesia può essere sconcertante o oscura, il problema sta nell'educare il lettore, che deve imparare a leggere con più accuratezza, andando oltre i propri limiti individuali e culturali e rispettando l'autonomia della poesia. Anche la teoria letteraria nata dallo strutturalismo ha considerato il lettore empirico come un intruso. Narratologia e poetica non hanno certo favorito la nascita di una ermeneutica della lettura, limitandosi a considerare un lettore astratto e ideale, o un lettore concreto che però fosse mera funzione del testo: un lettore che si conforma a quanto il testo si aspetta da lui. Il lettore diventa quello che Riffaterre definiva come “archilettore”, vale a dire un lettore onnisciente con il quale nessuna persona reale può identificarsi in ragione delle sue oggettive limitazioni interpretative.
La lettura reale è insomma trascurata a vantaggio di una teoria della letteratura, cioè di una definizione del lettore competente o ideale, un lettore che il testo richiede e che si piega all'attesa del testo.

Tratto da TEORIA DELLA LETTERATURA di Gherardo Fabretti
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