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Analisi dell'imperialismo ateniese

Secondo De Romilly, un’analisi completa dell’imperialismo ateniese deve basarsi su diversi livelli di analisi; in particolare, dobbiamo analizzare 3 punti: 

1. la manifestazione politica e il programma dell’imperialismo ateniese 
Nelle Storie, l’imperialismo ateniese è presentato puramente e semplicemente come la pratica politica attuata da Atene. Non ci sono atteggiamenti da parte di partiti politici verso l’imperialismo, né alcun programma politico “tradizionale” a cui far riferimento ⇒ non ci sono diversi tipi di imperialismo a seconda della prevalenza di questo o quel partito politico, né ci sono diverse fasi storiche nella politica ateniese. C’è solo un fatto, solo un soggetto immutabile, che può assicurare la continuità dell’imperialismo: gli Ateniesi = i singoli individui sembrano essere subordinati a questo enorme essere collettivo e, anzi, ne diventano lo strumento passivo di un volere a loro esterno. Non a caso, Tucidide parla delle azioni di Atene, ma non ne descrive mai le motivazioni più intime. 
Persino quando vengono contrapposte le diverse idee di 2 Ateniesi – il che succede 2 volte: nel Libro III, dove si scontrano Cleone e Diodoto, e nel Libro VI, dove si scontrano Nicia ed Alcibiade – Tucidide non sembra parlare di un preciso programma politico che guida l’imperialismo ateniese, né sono presenti elementi riconducibili ad un’eventuale tradizione politica della città. Invece, le posizioni espresse dai singoli personaggi risultano spiegabili (e dunque valide) solo in base alle circostanze immediate. 
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La forma assunta dall’imperialismo – estremista o moderata – dipende dalle circostanze, ma in generale le ambizioni di Atene tendono per natura a non avere limiti: tenderà a combattere contro Sparta per il dominio sulla Grecia e si estenderà sia ad est sia ad ovest. Questo è il vero imperialismo di cui Tucidide vuole parlare, e il grado d’intensità varierà solamente in base alle possibilità e alle occasioni che si presentano di volta in volta ⇒ sono le circostanze a decidere se l’imperialismo ateniese debba essere estremista o moderato, e l’influenza esercitata dai diversi gruppi o dalle diverse personalità dipende da tali condizioni. Brasida, il liberatore, è il primo a presentare l’idea di privare Atene di questa sua arma e per questo si rifiuta di favorire questa o quell’altra fazione politica all’interno delle città liberate. E non appena per Atene viene meno la possibilità di contare sul supporto di qualche fazione interna ai suoi soggetti, il desiderio di indipendenza sopraffa ogni differenza politica, proprio come affermato da Frinico: le città in rivolta non avrebbero scelto di sicuro la schiavitù ai piedi di un governo oligarchico o democratico – non faceva differenza – in cambio di una libera vita, non importa sotto quale dei due regimi (VIII.48). 

2. i mezzi per il raggiungimento dei fini e il campo d’azione dell’imperialismo ateniese 
Anche in questo caso, Tucidide non analizza mai (pur avendo molte occasioni) il modo in cui agisce l’imperialismo ateniese. Nelle Storie apprendiamo che Atene è una potenza marittima, il cui obiettivo è avere il controllo sul mare, che il suo principale campo d’azione sono le isole e che lo strumento principale era, ovviamente, la flotta. Atene aveva bisogno di risorse finanziarie per mantenere la sua flotta e l’impero provvedeva a procurarle ⇒ la talassocrazia ateniese è presentata come un sistema decisamente coerente. 
Nella Pentacontetia, le origini della potenza ateniese vengono collegate più o meno all’audace proposta di Temistocle che Atene doveva avere il controllo del mare (I.93, fu sua infatti l’originale audacia di proporre il mare come campo d’espansione per il futuro d’Atene) e l’unico passaggio analitico nella Pentacontetia è quello in cui Tucidide espone il modo in cui Atene è riuscita a migliorare la propria flotta, a spese dei suoi alleati (I.99, la maggior parte degli alleati si lasciava imporre il pagamento di una somma pari in valore alle navi non corrisposte. In tal modo, cresceva la potenza navale degli Ateniesi). 
Ecco perché sono le isole a rappresentare il principale campo d’azione: le isole hanno la priorità di difesa (IV.121, Brasida si aspettava che gli Ateniesi, considerando Scione un’isola, accorressero di volo) ed è per questo che Atene non poteva permettere loro di defezionare né di rimanere indipendenti (V.99, gli isolani, piuttosto, ci fanno tremare, quelli sì! Non solo quelli che, come voi, chi su un’isola, chi su un’altra, non soffrono nessun giogo, ma quelli che, esacerbati, già mordono il freno del nostro impero. Poiché costoro, in uno scatto folle e senza speranza, potrebbero coinvolgerci in una caduta verso ben prevedibili abissi). 
L’importanza che ha la talassocrazia per Tucidide può essere vista alla luce del fatto che egli non poteva immaginare altre forme di imperialismo per Atene: tutta l’Archeologia del Libro I dà l’impressione che gli unici imperi che siano mai esistiti erano quelli basati sul sea-power. E il controllo del mare in effetti offriva possibilità che il controllo continentale non poteva garantire. 
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Per Atene, le operazioni terrestri erano condotte solo a scopo tattico. Anche per Alcibiade le conquiste territoriali non erano che operazioni di “seconda categoria”. 
In questo modo, come per il primo punto, la chiarezza di questo approccio generale (Atene come potenza marittima) viene rinforzata solamente sacrificando dettagli poco rilevanti nel contesto delle Storie (l’imperialismo continentale). 

3. la natura più intrinseca e l’ispirazione psicologica dell’imperialismo ateniese 
Alcuni studiosi, in particolare Grundy, hanno criticato Tucidide per il fatto di non indicare mai i veri scopi dell’imperialismo ateniese che, secondo loro, erano perlopiù di natura economica: Atene cercava di proteggere le sue rotte per il grano e legname. La critica di De Romilly a questi studiosi parte dal fatto che Tucidide parla solo una volta delle rotte del grano, quando ad Atene si studia il piano di invadere la Sicilia (III.86, Atene aveva intenzione di interrompere il trasporto del grano da quei paesi al Peloponneso), ma questo è un punto strettamente collegato con la guerra e non la spiegazione ad un semplice desiderio di conquista in sé. 
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De Romilly (e Gernet) giustificano questo silenzio da parte di Tucidide sostenendo che, molto probabilmente, gli scrittori greci disprezzavano questi fattori economici semplicemente perché non li ritenevano così importanti, mentre per un Ateniese del V secolo, il dominio sui mari era un fine sufficiente in sé e, mostrando l’interesse per le rotte del grano e del legname solo legato al mantenimento di tale dominio, Tucidide presenta la diversa essenza dell’imperialismo ateniese. 
Quando gli Ateniesi “vogliono sempre di più”, essi certamente sono guidati da un sentimento di avidità. Questo desiderio, tra l’altro, si basa su elementi psicologici, del tutto indipendenti dall’idea di un semplice guadagno materiale. Secondo Tucidide, questo desiderio dipende da 2 emozioni di base: 
- l’amore per l’azione 
- il bisogno di potere, 

e in effetti tutte le sue analisi si concentrano su questi 2 aspetti e, in particolare, sull’amore per l’azione. È questa l’idea che si ricava dal discorso dei Corinzi, in cui mettono a confronto Ateniesi e Spartani (I.70), con la conclusione che se alcuno volesse definire in breve la loro indole (degli Ateniesi), direbbe giusto ch’essi sono venuti nel mondo per non goder mai loro stessi pace, né per lasciarla avere al resto degli uomini. Anche Nicia è consapevole di questa disposizione d’animo, tipica degli Ateniesi, quando tenta di dissuaderli dall’intraprendere la spedizione in Sicilia e considera la possibilità di entrare in conflitto con un pretesto poco credibile, ma bello all’apparenza, con il quale ammantava il profondo anelito a gettarsi in un’avventura grandiosa (VI.9). 
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Ciò che, di fatto, inspira negli Ateniesi è il desiderio di fama, onore, gloria. Questa “sete di gloria” è ben evidente non solo nei discorsi di Pericle, ma anche in quelli di tutti gli altri leader ateniesi: per essi, infatti, l’atto del dominare era da considerarsi come la perfetta espressione della libertà sia interna sia esterna. Una libertà superiore, dunque. Il punto delle Storie in cui Tucidide esalta questa idea è probabilmente il passo VIII.68, nel quale si afferma che non era affare di poco conto, trascorsi quasi cento anni dalla caduta della tirannide, far smettere al popolo d’Atene l’abitudine della libertà (abolendo il sistema di governo democratico = libertà interna): poiché non solo non era avvezzo a chinare la fronte (= libertà esterna), ma per oltre la metà di quel periodo secolare aveva contratto l’uso di costringere le altre genti all’obbedienza (= la più alta forma di libertà). 
Ecco dunque come si spiega il parallelismo fatto da Tucidide tra indipendenza e dominio: il loro legame rivela un aspetto dell’imperialismo classico, difficile da capire nell’immediato da parte del moderno lettore. Nei tempi moderni, infatti, il rapporto tra libertà ed autorità è, per motivi sia pratici sia intellettuali, meno evidente di quanto non lo fosse nel mondo antico. Infatti, come scrive Benjamin Constant, “nelle repubbliche dell’antichità classica, la ristrettezza territoriale ricoperta dalla città dava a ciascun cittadino un maggior peso individuale nelle questioni politiche… Il vantaggio che le persone derivavano dalla libertà, secondo i pensatori antichi, stava nel fatto che essi governavano personalmente, il che era un vantaggio genuino, che soddisfava sentimenti sia di vanità che di comodità”. Nei nostri tempi, invece, la libertà difficilmente porta all’esercizio dell’autorità. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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