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H. J. Morgenthau

Uno degli autori principali del cosiddetto realismo “classico” è di sicuro H. J. Morgenthau. 
Con l’opera Politics among Nations, egli si propone di presentare una teoria della politica internazionale, la quale andrà giudicata in base al suo scopo = dare ordine e significato ad una massa di fenomeni che senza di essa rimarrebbero sconnessi e inintelligibili. 
Il problema che la teoria solleva riguarda la natura di tutta la politica. La storia del pensiero politico moderno è la storia di una controversia fra 2 scuole che differiscono radicalmente nella concezione della natura dell’uomo, della società e della politica: 
− l’una (la teoria utopista) crede che si possa facilmente raggiungere un ordine politico, morale e razionale, derivato da principi astratti universalmente validi. Essa presuppone una natura umana fondamentalmente buona e indefinitamente malleabile e, se l’ordine sociale non rispecchia i modelli razionali, ne attribuisce la responsabilità alla mancanza di conoscenza e comprensione, a istituzioni sociali obsolete o alla malvagità di individui o gruppi isolati ⇒ per porre rimedio a questi difetti si affida all’istruzione, alle riforme e, sporadicamente, all’uso della forza; 
− l’altra scuola crede che il mondo, imperfetto da un punto di vista razionale, sia il risultato di forze inerenti alla natura umana, e che quindi, per migliorarlo, sia necessario operare assecondando queste forze e non contro di esse. Dal momento che il mondo è caratterizzato sostanzialmente da interessi che si contrappongono e dal loro conflitto, i principi morali non possono mai essere portati a piena realizzazione, ma, al massimo, si possono avvicinare ad essa per mezzo di un sempre temporaneo bilanciamento degli interessi e una sempre precaria soluzione dei conflitti. L’interesse teorico per la natura umana come è in realtà e per i processi storici come hanno concretamente luogo, ha valso a tale teoria il nome di realismo. Di essa, Morgenthau isola 6 principi fondamentali: 
1. Il realismo politico ritiene che la politica, come la società nel suo complesso, sia governata da leggi oggettive che hanno la loro origine nella natura umana. 
Per il realismo la teoria consiste nell’accertare i fatti e nel dar loro un senso per mezzo della ragione. Esso presuppone che il carattere di una politica estera possa essere compreso solo attraverso l’esame delle scelte politiche e delle loro prevedibili conseguenze; in questo modo possiamo scoprire cosa hanno realmente fatto gli uomini politici e possiamo arguire, dai risultati prevedibili delle loro azioni, quali avrebbero potuto essere i loro obiettivi. 
Ma l’esame dei fatti non è sufficiente. Per dare un senso alla materia grezza della politica estera, dobbiamo metterci nella posizione dello statista che deve affrontare un certo problema di politica estera in determinate circostanze, domandandoci quali siano le alternative che egli ha di fronte (sempre assumendo che egli si comporti razionalmente), e quali fra tali alternative razionali egli in quelle circostanze probabilmente sceglierà. 
2. La principale indicazione che aiuta il realismo politico ad orientarsi sul palcoscenico politico internazionale è il concetto di interesse definito in termini di potere. 
Tale concetto pone la politica come sfera d’azione e campo del sapere autonomo, separato da altri quali l’economia (concepita in termini di interesse definito come ricchezza), l’etica, l’estetica o la religione. Senza tale concetto una teoria della politica, tanto internazionale quanto interna, sarebbe del tutto impossibile, perché non potremmo distinguere fra fatti politici e non politici, né potremmo apportare alla sfera politica una parvenza di ordine sistematico. 
Il concetto di interesse definito come potere impone disciplina intellettuale all’osservatore, introduce ordine razionale nella sostanza della politica, e rende così possibile la comprensione teorica di essa. Per quanto riguarda l’attore, tale concetto fornisce disciplina razionale per l’azione, creando quella sorprendente continuità di scelte che fa sì che la politica estera americana, russa o inglese appaia come un continuum comprensibile, razionale e complessivamente coerente. 
Tuttavia, cercare il bandolo della matassa della politica estera esclusivamente nelle motivazioni degli statisti è tanto futile quanto ingannevole, dal momento che le buone intenzioni mettono al riparo da una politica deliberatamente cattiva, ma non ne garantiscono né la bontà morale né il successo politico (si pensi, ad esempio, la politica di appeasement di Neville Chamberlain). 
Non è esagerato affermare che, sul piano internazionale, la stessa struttura delle relazioni internazionali ha dimostrato una tendenza a staccarsi, divenendo sempre più irrilevante, dalla realtà politica internazionale. Mentre la prima si basa sul principio dell’uguaglianza sovrana fra tutti gli Stati, la seconda è caratterizzata da un’estrema disuguaglianza tra essi: 2 stati vengono infatti definiti “superpotenze” perché detengono una potenza senza precedenti, mentre molti altri vengono chiamati “ministati” perché la loro potenza è minuscola, anche in confronto a quella dei tradizionali stati-nazione. Proprio questo contrasto e questa incompatibilità fra la natura della politica internazionale e i concetti, le istituzioni e le procedure designati a renderla intelligibile e a controllarla hanno causato, per lo meno al livello delle piccole potenze, un’ingovernabilità delle relazioni internazionali tale da sconfinare nell’anarchia. 
Il realismo politico non contiene solo un elemento teorico, ma anche uno normativo: 
− esso sa che la realtà politica è colma di elementi contingenti e di irrazionalità sistemiche, e ne sottolinea le influenze tipiche sulla politica estera ⇒ il realismo politico fornisce la costruzione teorica di una politica estera razionale che l’esperienza non può mai raggiungere completamente; 
− allo stesso tempo, il realismo politico considera una politica estera razionale come una buona politica estera, poiché soltanto essa minimizza i rischi e massimizza i vantaggi, rispettando quindi tanto il precetto morale della prudenza quanto il requisito politico del successo. 
3. Il realismo presuppone che il suo concetto principale – l’interesse definito come potere – sia una categoria universalmente valida, ma non attribuisce a tale concetto un significato stabilito una volta per tutte. 
L’idea di interesse è, in realtà, l’essenza della politica e non è influenzata da circostanze né di tempo né di luogo. MA il tipo di interesse che determina l’azione politica in un particolare periodo storico dipende dal contesto culturale e politico all’interno del quale la politica estera è formulata. 
Le stesse osservazioni si applicano al concetto di potere: il suo contenuto e il modo in cui è impiegato sono determinati dall’ambiente politico e culturale. 
Il realismo politico non sostiene che sia impossibile mutare le condizioni contemporanee nelle quali opera la politica estera, caratterizzate da un’estrema instabilità e dalla perenne minaccia di violenza su larga scala. Ma il realista si separa dalle altre scuole di pensiero rispetto al fondamentale problema di come il mondo contemporaneo debba essere mutato: egli è convinto che questa trasformazione possa essere compiuta solo attraverso la manipolazione artificiale di quelle forze eterne che hanno plasmato il passato e plasmeranno il futuro. 
4. Il realismo politico è consapevole del significato morale dell’azione politica e della ineluttabile tensione fra il principio morale e i requisiti di una politica di successo; né esso vuole sorvolare su tale tensione, dimenticarla e confondere i termini tanto del problema morale quanto di quello politico. 
Il realismo sostiene che i principi morali universali non possono essere applicati alle azioni degli stati nella loro formulazione generale e astratta, ma che essi devono essere filtrati dalle circostanze concrete di tempo e di luogo. Sia l’individuo sia lo stato devono giudicare l’azione politica attraverso principi morali universali, come quello di libertà. Tuttavia, mentre l’individuo ha il diritto morale al sacrificio di sé in difesa di un simile principio etico, lo Stato non ha alcun diritto di permettere che la sua disapprovazione morale per la violazione della libertà impedisca una scelta politica di successo, ispirata dal principio morale di sopravvivenza nazionale. 
Non ci può essere moralità politica senza prudenza (= la considerazione delle conseguenze politiche di un’azione apparentemente morale) ⇒ il realismo considera la prudenza come la suprema virtù in politica. 
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L’etica astratta giudica un’azione in base alla sua conformità alla legge morale; 
l’etica politica giudica un’azione in base alle sue conseguenze politiche. 
5. Il realismo politico rifiuta di identificare le aspirazioni morali di una particolare nazione con le leggi morali che regolano l’universo. 
È proprio il concetto di interesse definito in termini di potere che ci salva sia dall’eccesso morale che dalla follia politica. Se consideriamo tutte le nazioni come entità politiche che perseguono i loro rispettivi interessi definiti in termini di potenza, siamo in grado di rendere giustizia a tutte in duplice senso: 
− possiamo giudicare le altre nazioni come giudichiamo la nostra 
e, di conseguenza, 
− mettere in atto politiche che rispettino gli interessi altrui e al tempo stesso proteggano e promuovano i nostri. 

6. La differenza fra il realismo politico e le altre scuole di pensiero esiste ed è profonda. Intellettualmente il realista sostiene l’autonomia della sfera politica, come l’economista, l’uomo di legge, il moralista sostengono quella delle rispettive sfere. 
Il realista politico è consapevole dell’esistenza e dell’importanza di modelli intellettuali diversi da quelli politici, ma non può fare altre che subordinare i primi ai secondi ⇒ egli si discosta da quelle scuole che impongono alla sfera politica schemi di pensiero propri di altri settori. 
La difesa realista dell’autonomia della sfera politica contro le intrusioni da parte di altri modelli di pensiero non significa ignorare la loro esistenza e importanza. Essa comporta piuttosto che ad ogni schema intellettuale dovrebbe essere assegnata una sfera e una funzione propria. Il realismo politico è basato su una concezione pluralistica della natura umana, per la quale l’uomo, in concreto, è un insieme di “uomo economico”, “uomo politico”, “uomo morale”, “uomo religioso”… 
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Riconoscendo che esistono questi diversi aspetti della natura umana, il realismo politico ammette anche che, se vogliamo comprenderli, dobbiamo analizzare ciascuno nei propri termini. 

Queste “leggi ferree della politica internazionale” sono molto utili per capire l’intera struttura del pensiero realista classico. 
In particolare, i principi 1 e 5 riguardano la critica del razionalismo e dello scientismo che hanno caratterizzato, secondo Morgenthau, l’approccio utopista. Gli utopisti sono colpevoli di aver ripudiato la politica, perché hanno portato al livello internazionale idee sviluppate per capire la politica interna ⇒ i liberali ignorano completamente la lotta per il potere, che vedono invece come un difetto, una disfunzione. Per Morgenthau, invece, la lotta per il potere è collegata con il vivere dell’uomo nella società. E che dunque caratterizza tutta la politica, non solo quella internazionale. 
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Una dottrina che ignora la lotta per il potere o che la vede come un fenomeno anomalo, è una dottrina che si autocondanna ad un’utopia della politica. 
Il secondo “peccato” di cui si sono macchiati gli utopisti è il loro razionalismo ⇒ Morgenthau ne contesta una visione semplificata e meccanica dell’essere umano e del suo vivere in associazione, contrapponendo invece quelle tragiche contraddizioni dell’esistenza umana. 
Riflettere su questi elementi è di notevole importanza per capire il fondamento antropologico, il punto di partenza della teoria di Morgenthau. 
I principi 2 e 3 rimandano invece ai 2 concetti fondamentali di tutto il realismo: interesse e potere (non a caso tutta l’opera Politics among nations è incentrata sull’analisi del potere e a come essa sia utile a capire alcuni aspetti della politica internazionale, come ad esempio la politica estera1). 
Bisogna innanzitutto distinguere tra 
− potere = la capacità di un agente di indurre l’altro a compiere un’azione che altrimenti non avrebbe compiuto, attraverso la minaccia o l’applicazione di certe punizioni; 
− influenza = la capacità di un agente di indurre l’altro a compiere un’azione che altrimenti non avrebbe compiuto, attraverso la promessa di un beneficio. 

Ad essi, va aggiunto il rispetto e l’autorevolezza di un uomo o di un’istituzione, cioè il potere carismatico. 
Tuttavia, la distinzione tra potere ed influenza, o tra politica di potenza e politica di influenza, non implica che i 2 concetti siano nella pratica facilmente separabili. Anzi, nella realtà, ogni volta che questi mezzi raggiungono un certo obiettivo politico, sono presenti sia elementi di persuasione sia elementi di pressione o coercizione. 
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Sebbene il potere e l’influenza differiscono tra loro sotto molti aspetti (l’effettività, o il sacrificio che implicano) essi hanno in comune il fatto di essere i mezzi per eccellenza della politica estera; nessuno stato che ha certi obiettivi esterni può sperare di ottenerli e di operare senza alcuni gradi di potere ed influenza. Inoltre, le nazioni hanno poche capacità di sopravvivenza come unità indipendenti se non riescono a raggiungere un certo grado di potere coercitivo, dal momento che l’influenza senza una certa dose di potere non ha alcun effetto reale. 
Cosa significa “interessi nazionali definiti in base al potere”? 
Chiaramente è in gioco il problema di definizione di interesse. Per Morgenthau, tutto ciò che va ad incidere sul potere rientra nella definizione di interesse. Posta in questo modo, l’analisi offre alcuni vantaggi: 
− in chiave analitica = ci si può fare un’idea abbastanza precisa di cosa succederà, è possibile spiegare ciò che sta accadendo ⇒ vantaggio per la teoria 
− in chiave prescrittiva, almeno su 2 livelli: innanzitutto riesce a dare un contenuto specifico al problema che ci si pone (ad esempio: intervenire o non intervenire in Vietnam?). Inoltre (cosa importante soprattutto in clima di Guerra Fredda), permette di accantonare ogni elemento di tipo ideologico, pericoloso e controproducente, perché nega la legittimità degli interessi nazionali altrui. Così, un compromesso tra principi sarebbe assai difficile da raggiungere. 

Tutto questo, richiama i concetti già trattati nella letteratura dal tardo ‘500 dalla “Dottrina degli interessi”: 
− centralità di interesse, derivato dalla necessità di ricostruire le mosse degli altri Stati, con obiettivi di tipo analitico, dunque, ma anche prescrittivo; 
− simile classificazione degli interessi: anche Morgenthau parla di interessi permanenti e interessi temporanei; 
− stessi problemi: tutta la teoria è condizionata dal contenuto specifico di cui si parla. La scelta di un criterio veramente operativo che permette di identificare un interesse diventa una questione alquanto discussa sul piano prescrittivo (si pensi ad esempio le opinioni contrastanti di Kennan e Morgenthau sull’utilità della NATO). 

I principi 4 e 6 trattano del problema etico: solitamente, tutti i realisti vengono accusati di essere immorali o amorali. Tuttavia, almeno per quanto riguarda il realismo classico, non è assolutamente vero. Morgenthau si preoccupa di questa questione per tutta la sua vita, cercando di trovare una soluzione al problema, ma senza successo, se non riprendendo – ancora una volta – categorie weberiane: 
− etica della convinzione = etica individuale, che prescinde dalle conseguenze. 
− etica della responsabilità = etica che deve tener conto delle conseguenze, è l’atteggiamento morale che devono tenere coloro che sono “responsabili” della società ⇒ chiedere ad uno Stato di agire contro il proprio interesse è una cosa decisamente immorale ⇒ per quanto buona, l’intenzione non basta. 

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Agire con successo, cioè agire secondo le leggi dell’arte politica, è saggezza politica. 
Sapere con desolazione che questo è inevitabilmente di svantaggio, ma agire cionondimeno, è coraggio morale. 
Scegliere tra tante azioni inutili la meno ardua è un giudizio morale. 
Nella combinazione di saggezza politica, coraggio morale, giudizio morale, l’uomo riconcilia la sua natura politica con il suo istinto etico. 
Se questa conciliazione non sia altro che il modus vivendi precario, paradossale e difficile può sorprendere solo coloro che preferiscono distorcere le tragiche contraddizioni della natura umana (= i liberali). 

Come minimizzare la lotta per il potere? 
Morgenthau analizza varie “tecniche”, tra cui la sicurezza collettiva, identificata con la Società delle nazioni di Wilson, opzione clamorosamente fallita, e il governo mondiale, opzione completamente fuori discussione in clima di Guerra Fredda. In particolare, per Morgenthau, l’idea di sicurezza collettiva non può essere funzionale per la minimizzazione del conflitto perché presuppone già l’assenza di conflitto ⇒ in pratica, la sicurezza collettiva funzionerebbe soltanto laddove non serve. 
Per Morgenthau la soluzione è la diplomazia = l’arte del compromesso, che azzera le differenze ideologiche, che presuppone dei professionisti con una certa “mano libera” (i diplomatici di mestiere), che, consapevoli degli interessi nazionali, propri ed altrui, negoziano, senza veleni ideologici e senza pressioni interne. 
Come limitare la principale causa di conflitto tra gli Stati, cioè la crescita della potenza altrui? 
Morgenthau analizza alcune opzioni, le confuta per poi proporre l’unica soluzione possibile: 
− la moralità internazionale che esercita un ruolo di dissuasione (Bentham, J. Stuart Mill): per Morgenthau, però, esistono, al massimo, dei principi morali nazionali, che cambiano da Stato a Stato, ma è impensabile credere che esista una moralità internazionale, che valga per tutti gli Stati; 
− lo stesso vale per l’opinione pubblica “illuminata”, istruita (da Kant in poi): non esiste alcun caso di politica estera fermata o modificata semplicemente per l’opposizione dell’opinione pubblica; 
− il diritto internazionale: sebbene Morgenthau sia un giurista, egli ritiene che il diritto internazionale sia molto utile nella gestione degli affari quotidiani, ma non è un freno valido quando sono in gioco interessi vitali. 

L’unica alternativa è il vecchio equilibrio di potenza, una tecnica non ideale, ma l’unica in grado di garantire il successo. 
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Diplomazia ed equilibrio, le basi della teoria internazionale/dottrina di Morgenthau, sono sì soluzioni imperfette, ma sono sempre meglio di quelle proposte dagli utopisti, che volevano trascendere dalla realtà ⇒ preferire questo male minore piuttosto ad un bene assoluto è indice della prudenza politica delineata dal realismo classico. 
Da qui, comunque, è facile indicare i maggiori limiti della teoria di Morgenthau: 
− Cosa significa che la politica è la lotta per il potere? Il potere è un mezzo o un fine? Perché da un punto di vista teorico questa distinzione fa una notevole differenza… 
− Come si fa a distinguere la politica internazionale dalla politica interna? Morgenthau dice solo che tutta la politica è lotta di potere… 
− Supponendo che il potere sia un mezzo, quali sono i fini? Possiamo immaginare una classificazione dei fini della politica estera a prescindere dal concetto di potere? 
− Di che tipo di potere si parla? Morgenthau parla della dimensione militare del potere, ma anche di quella economica, di quella politica… 

Certamente, Morgenthau era consapevole di questi limiti, ma in tutta la sua opera tende comunque a concentrarsi solo sul ruolo del potere, sulla lotta per il potere, senza però approfondire quali sono i suoi confini. 
Perché? 
Potremmo rispondere affermando che i realisti classici risentono ancora molto della polemica con i liberali utopisti, che aveva rifiutato di parlare e di considerare il potere. 
Per i realisti, invece, dato che capiscono l’importanza centrale del potere, non è necessario approfondire un simile discorso, perché fin troppo ovvio e scontato. 
Lo stesso discorso vale per l’interesse nazionale: qual è il criterio che ci permette di definire l’interesse nazionale? 
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Arriviamo alla conclusione che quella delineata da Morgenthau non è affatto una teoria. 
Una teoria può essere costruita in modo induttivo (= osservare un fenomeno e trarre da esso alcune conclusioni) o in modo deduttivo: si parte da un assunto, fissando alcune condizioni. Si individuano poi dei nessi causali tra 2 variabili (una variabile indipendente, causale, e una variabile dipendente, l’effetto, il fenomeno che deve essere spiegato). Si ottiene così una legge. Aggiungendo alcune ipotesi verificate, si giunge alla teoria = sistema ipotetico, basato su ipotesi di tipo causale. 
Come si accennava, in Morgenthau non c’è niente di tutto questo. Nella sua opera non si trova una teoria, ma piuttosto un’interpretazione, una visione concettualizzata degli affari internazionali. Ma non vi è traccia di ipotesi di tipo causale, verificate in qualche modo; anzi, i concetti non vengono mai definiti in modo univoco (basti pensare che Morgenthau dà ben 4 definizioni di equilibrio di potenza); non ci sono ipotesi formulate in modo esplicito (se a…, allora b…). 
Neanche gli altri realisti classici riescono a superare questo problema. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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