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Il realismo politico di Hobbes

Se abbiamo detto è Machiavelli il primo realista moderno, tuttavia, per quanto riguarda le relazioni internazionali, l’autore a cui spesso si fa riferimento come primo formulatore di una teoria delle relazioni internazionali è T. Hobbes. Egli non aveva alcuna intenzione di formulare una teoria della politica internazionale, ma è giunto a tale formulazione in maniera indiretta. Infatti, per spiegare la necessità di un governo civile e, di fatto, assoluto, Hobbes si chiede in quali condizioni si troverebbero gli uomini in assenza di tale governo (ossia lo “stato di natura”). 
Volendo fare un paragone tra Hobbes e l’opera di Tucidide, si osservano molti punti di contatto, con la differenza principale che, mentre Tucidide si limita ad osservare certi fenomeni tipici della natura umana, Hobbes propone invece la figura del Leviatano, il cui compito è quello di porre fine fondamentalmente allo stato di natura, garantendo la protezione della vita degli uomini ⇒ gli uomini rinunciano a tutti i loro diritti naturali in cambio della vita. 
Secondo Hobbes, la condizione di natura è uno stato di guerra di tutti contro tutti. Questo deriva dalla natura dell’uomo: nello stato di natura, infatti, gli uomini vivono con il costante timore di perdere la propria vita a causa delle azioni degli altri uomini ⇒ egli teme e non si fida degli altri uomini, e al contempo cerca di garantire la propria sicurezza. 
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Le disposizioni degli uomini sono per natura tali che, a meno che essi non siano trattenuti dal timore di un qualche potere coercitivo, ciascun uomo diffiderà e temerà gli altri; e, secondo il diritto naturale, egli sarà portato per necessità a usare tutte le sue forze per garantire la sua preservazione ⇒ lo stato di uomini senza una società civile, che possiamo chiamare stato di natura, non è altro che una mera situazione di guerra di tutti contro tutti; e in questo stato di guerra, tutti gli uomini hanno uguali diritti su ogni cosa (De Cive). 
Inoltre, gli uomini, guidati dalle loro passioni, hanno desideri e appetiti che li spingono a volere cose materiali e potere (= la capacità di gratificare i propri desideri). Dalla contemporanea ricerca degli stessi obiettivi derivano il costante timore e diffidenza reciproca: il motivo più frequente per cui gli uomini desiderano colpire gli altri è che molti uomini hanno allo stesso tempo un appetito per la stessa cosa; la quale molto spesso non può essere condivisa, né divisa ⇒ il più forte vince, e chi è il più forte viene stabilito dalla spada (⇒ dalla forza) (De Cive). 
Dal momento che Hobbes sostiene la generale inclinazione di tutti gli uomini a desiderare sempre più potere, ne deriva che non possono assicurarsi il potere e i mezzi per vivere bene già in loro possesso, senza acquisirne sempre di più (Leviatano). 
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Da questo desiderio di garantire ciascuno la propria sicurezza, così come quello di ottenere un certo prestigio, gli uomini allo stato di natura (e gli Stati, che sono sempre in una condizione di natura nei loro rapporti reciproci) diventano nemici, continuamente disposti a combattersi l’un l’altro. 
Per cui nella natura degli uomini, troviamo 3 cause principali di lotta. Primo, la competizione; secondo, la diffidenza; terzo, la gloria. 
− Il primo spinge gli uomini ad agire per guadagno; 
− il secondo per sicurezza; 
− e il terzo per reputazione. 

Nel primo caso si usa la violenza, per rendere gli uomini padroni dei possessi degli altri; nel secondo per difendere tali possessi; nel terzo per inezia. 
Come si è già notato, è la stessa tripartizione delle cause dell’agire umano fatta da Tucidide. 
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È chiaro che, finché gli uomini vivono senza un potere comune che intimorisca tutti gli uomini, essi sono in una condizione di guerra; e questa guerra è di ogni uomo contro ogni uomo. 
Per GUERRA, non si intende solo la battaglia, o l’atto di combattere; ma consiste in quel periodo di tempo, nel quale il desiderio di combattere è sufficientemente noto: quindi la nozione di tempo deve essere presa in grande considerazione nella natura della guerra ⇒ la natura della guerra consiste non solo nel vero combattimento; ma alla disposizione per cui per tutto il tempo non c’è assicurazione del contrario. Tutti gli altri periodi sono di PACE (Leviatano). 
Come in Tucidide, dunque, anche in Hobbes bisogna sottolineare il ruolo centrale della paura, come motore principale dell’agire umano. Il timore [fear] a cui Hobbes fa riferimento è non tanto un “terrore” (phobos), ma una specie di previsione di un male futuro ⇒ gli uomini agiscono in modo da non solo sfuggire all’oggetto che ispira timore, ma anche da diffidare, sospettare, guardarsi, provvedere a eliminare la fonte del timore stesso. 
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Anche Hobbes parla di un’apprensione di carattere intellettuale, legata al futuro, che esprime appunto un deos e non un phobos: è il timore di incontrare qualcosa che si vuole evitare. 
In questa situazione di continua inimicizia, gli uomini hanno il diritto di usare ogni mezzo a loro disposizione per potersi preservare; ciascun uomo ha il diritto di giudicare quali siano i mezzi più efficaci. E Hobbes sottolinea come gli Stati indipendenti abbiano lo stesso diritto di fare tutto ciò che ritengano necessario a garantire la propria sicurezza. 
Dunque, il primo fondamento del diritto naturale è che ogni uomo si sforzerà per proteggere la propria vita. 
Da questo deriva che, per fare ciò, ogni uomo avrà il diritto di usare tutti i mezzi, e di compiere ogni azione, senza i quali non può preservarsi (De Cive). 
Da questo stato di guerra di tutti contro tutti deriva un’altra considerazione: che niente può essere ingiusto. Le nozioni di giusto e sbagliato, di giustizia e ingiustizia non trovano posto in questo ambiente. Dove non esiste un potere comune, non c’è neanche la legge: dove non c’è la legge non c’è l’ingiustizia. Le uniche virtù cardinali in guerra sono la forza e la frode (Leviatano). 
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In questa guerra di tutti contro tutti in cui nessuno è al sicuro, nemmeno il più forte, gli uomini vivono questa situazione come una “odiosa condizione”, per cui la loro “giusta ragione” li spinge ad attuare alcune regole di mutua condotta, che possono in un certo modo aumentare le loro possibilità di sopravvivenza. 
La prima di queste leggi implica che ogni uomo desideri e speri nella pace; e qualora non la possa ottenere, utilizzi tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra (Leviatano). 
Dunque, l’unico modo con cui gli uomini possono sfuggire dallo stato di natura è attraverso la mutua rinuncia al diritto su tutte le cose. Il che è possibile solo se sarà assicurato che ciascuna parte verrà rispettata. È a questo punto che, secondo Hobbes, avviene il passaggio del “diritto a tutte le cose” alla costituzione di una sovranità assoluta. 
Ne deriva che gli Stati, da un lato, non possono mettere termine allo stato di guerra nel contesto internazionale e, dall’altro, devono prendere tutte le misure necessarie per garantire l’auto-conservazione nazionale. 
Se dunque in Tucidide la separazione tra interno e esterno non è così evidente, in Hobbes, invece, è molto chiara, perché, mentre all’interno degli Stati vige l’ordine e la pace, tra gli Stati invece persiste questo stato di natura, di “anarchia”. Osserva Hobbes, in ogni momento, re, e altre autorità sovrane, a causa della loro interdipendenza, erano in un continuo stato di gelosia, in una situazione simile a quella dei gladiatori; con le armi puntate, e gli occhi fissi sull’altro; cioè con le loro fortezze, le guarnigioni, le pistole lungo le frontiere dei propri regni; con la costante presenza di spie presso i loro vicini; il che è stato di guerra (Leviatano). 
Se dunque in tutta la sua opera Hobbes traccia questa analogia tra individui e Stati, la domanda inevitabile è: 
Perché non è possibile un certo ordine tra gli Stati? 
Principalmente perché, ad un certo punto, l’analogia individuo-Stato cessa, per tutta una serie di motivi così sintetizzabili: 
− l’individuo è vulnerabile e mortale, mentre uno Stato non può essere “ucciso” altrettanto facilmente ⇒ se il Leviatano nasce dal timore degli uomini di subire una morte violenta, questo incentivo è poco potente a livello internazionale; 
− all’interno degli Stati la vita non è intollerabile, laddove esiste un qualche ordine ⇒ anche questo incentivo, che elimina lo stato di natura a livello individuale, viene però meno a livello statuale; 
− è vero che gli Stati sono sempre armati l’uno contro l’altro (immagine dei gladiatori), ma questo non vuol dire continua guerra guerreggiata, ma semplicemente che esiste sempre la potenzialità di uno scontro armato. La guerra, tutto sommato, è un evento straordinario; 
− infine, se la funzione principale del Leviatano è di proteggere la vita dei cittadini, esso è pertanto un attore razionale, molto prudente ⇒ per quanto sospettosi e diffidenti possano essere i rapporti tra i vari Leviatani, l’uso della forza non è sistematico. 

In queste circostanze, è dovere di ogni governo provvedere alla difesa contro le potenze esterne e di usare tutti i mezzi a sua disposizione per raggiungere questo scopo. 
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Tutti i doveri dei governanti sono contenuti nella massima “la salvezza del popolo è la legge suprema” (De cive). 
Il che significa principalmente la difesa del popolo: il che consiste da una parte nell’obbedienza e nell’unità dei soggetti, e in mezzi quali soldati retribuiti, denaro, armi, navi e luoghi fortificati pronti per la difesa; dall’altra parte nella capacità di evitare guerre non necessarie (De Corpore Politico). 
Oltre all’opera di Machiavelli ed Hobbes, è però opportuno sapere che il realismo moderno di basa anche sull’opera di personaggi “minori”, di tutta una serie di pubblicisti, di storici, che, nel corso dell’età moderna hanno contribuito a costruire quella che è la tradizione realista moderna. 
In particolare, possiamo fare riferimento a quella che viene chiamata la dottrina degli interessi, che si afferma in Europa e, in particolare in Francia, dal 1500 in poi, che può essere vista come la controparte esterna di ciò che all’interno degli Stati è la Ragion di Stato. La dottrina della Ragion di Stato, diffusa soprattutto grazie all’opera di Botero, si fondava sull'idea che il principale fine di chi governa sia la conservazione dello Stato. In linea di principio tale obiettivo primario può, secondo i teorici di questa tendenza, legittimare azioni eticamente condannabili e autorizzare l'impiego della violenza dell'inganno in tutti i casi in cui tali mezzi risultino efficaci per garantire la sicurezza dello stato. 
Parlare di questa dottrina degli interessi degli Stati ci lega ancora una volta a Tucidide e a tutta la sua “teoria” sull’interesse come motore dell’azione degli Stati. 
Questa dottrina nacque in Italia, a seguito del crollo della Pentarchia alla fine del 1400 ⇒ gli Stati italiani si trovano improvvisamente all’interno di un contesto più ampio, fatto dalle grandi potenze europee. 
Lo Stato italiano all’epoca più importante era Venezia. E proprio all’interno della fitta rete diplomatica veneziana nasce questa idea di interessi degli Stati, che predominano sugli interessi dei singoli signori (Machiavelli era consapevole di questo elemento dell’interesse, ma scrive più di individui che di Stati): Venezia era un po’ una sorta di vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro rappresentati dalla grandi potenze europee (Francia e Spagna, soprattutto) ⇒ Venezia ha tutto l’interesse a capire cosa succede in Europa, a capire quali sono le mire e le intenzioni, gli interessi delle maggiori potenze europee. 
La “regola generale” è che ogni Stato è mosso dal proprio egoismo, da un “beninteso vantaggio razionale”, al di sopra di ogni altro motivo. 
Non si dubita che gli Stati possano essere tenuti insieme da una serie di interessi comuni e si riconosce che questi interessi hanno 
− un lato mutevole ⇒ interessi temporanei 
− un lato costante ⇒ interessi permanenti 

distinzione ripresa in seguito da altri autori realisti (basti pensare a Morgenthau). 
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L’Italia offriva al pensatore politico ottimo materiale per i piccoli Stati, ma ormai è di fatto fuori dallo scenario internazionale: ora la politica europea si concentra sulla grandi potenze e, in particolare, sulla Francia, dove queste idee trovano una piena attuazione, in un contesto sconvolto da guerre di religione, tra cattolici e ugonotti. In questo contesto, appunto, già dal 1562 si forma il cosiddetto “partito dei politici”, che si pronuncia contro la guerra civile, la quale, si afferma, è contro gli interessi della Francia, perché porterà i cattolici a chiedere l’aiuto della grande potenza cattolica – la Spagna – e questo andrà a ledere i veri interessi della Francia. 
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Questi “politici” arrivarono a sostenere l’importanza della tolleranza religiosa per motivi di politica estera. 
Queste idee verranno sistematicamente elaborate durante il periodo di Richelieu, nel 1600. 
Nel 1624, uscì un’opera intitolata Discorso dei principi e degli Stati della cristianità, il cui autore ci è sconosciuto, anche se molti pensano sia padre Giuseppe = il confidente e l’aiutante del Cardinale Richelieu. 
L’opuscolo inizia ricordando che è necessario conoscere ciò che lo Stato è, in che rapporto è con gli altri Stati ⇒ come si comporta verso l’esterno, perché tra interno ed esterno esiste una infallibile corrispondenza: laddove lo Stato è in grado di mantenere un certo ordine interno è anche in grado di porsi come potenza verso l’esterno. 
Ovviamente, gli Stati europei vengono presentati dal punto di vista degli interessi dello Stato francese. Sulla stessa linea è il pensiero del duca di Rohan, anch’egli vicinissimo a Richelieu. Uno dei capisaldi della linea politica del Cardinale è il principio secondo cui nella vita politica deve dominare assolutamente l’interesse pubblico ⇒ la politica deve corrispondere unicamente ad un modello utilitario. Bisogna prescindere anche dagli interessi dinastici, monarchici, che non devono essere confusi con gli interessi più generali della Francia (il Duca di Rohan scrive infatti che i principi comandano i popoli, e gli interessi comandano i principi ⇒ i principi sono in un certo senso condizionati da un’architettura razionale e calcolata dei loro interessi nazionali benintesi). 
Tutti questi concetti, sviluppati nel corso del ‘600, verranno ulteriormente ripresi per tutto il ‘700, quando si sottolineerà la netta distinzione tra l’interesse monastico e l’interesse nazionale (si pensi alla Prussia di Federico il Grande). 
E, in piena linea con il pensiero scientifico del tempo, proprio come si scoprono leggi scientifiche, così anche i rapporti tra stati sono guidati da leggi molto simili: gli Stati formano una sorta di “universo fisico”, retto dai loro interessi e dalla loro potenza ⇒ un’analisi corretta di questa potenza ed interessi permette di prevedere in anticipo, con una certa approssimazione, le mosse degli altri (cosa che, dal punto di vista pratico, costituisce un enorme vantaggio). 
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L’idea di studiare la storia è anch’essa legata a questa idea utilitarista: è il mezzo migliore per farsi un’idea, giusta ed esatta delle cose che avvengono nel mondo, e giudicare di esse mediante confronti, scegliendo i versi dalla storia, stabilendo paralleli quegli avvenimenti occorsi oggi, mediante rapporti di somiglianza (Montesquieu). 
Anche Federico il Grande scrive con toni del tutto simili, e, pur proponendosi come l’anti-Machiavelli, in realtà scrive allo stesso modo. Egli distingue tra 
− interessi falsi 
− interessi veri 
e tra 
− interessi permanenti 
− interessi momentanei 

ed è fortemente convinto che una corretta analisi alla luce di questi criteri permetta una politica estera e internazionale di successo. 

Tratto da TEORIA DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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