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Il mito di Ulisse in Salvatore Quasimodo e Cesare Pavese

Salvatore Quasimodo- Isola di Ulisse (da Erato e  Apòllion,1932-1936)

Di un’altra isola, trasfigurata nell’isola di Ulisse, scrive Salvatore Quasimodo, convinto che mitopoiesi possa realizzarsi attraverso lo sguardo che si posa sul mondo e lo scopre più favoloso di quello delle favole antiche. Ora in una nuova età dell’oro, davanti agli occhi del poeta e dell’amata rinasce un’isola mediterranea grazie ad una prodigiosa metamorfosi. Il canto, l’antica voce delle Sirene è ormai ferma per sempre e se ne odono soltanto “risonanze effimere”. Non Ulisse, qui, ma il ritorno misterioso del “tempo delle mutazioni”, preme al poeta.
Questa trasposizione del mito la si nota bene anche in un’altra lirica di Quasimodo, Vento a Tìndari (da Acque e Terre, 1920-1929), dove si ha l’identificazione della Sicilia, del luogo natìo, con il concetto di “isola”. La lontanza dall’isola significa innanzi tutto naufragio contro cui unica possibile difesa, come già in Ungaretti, è il canto e la coscienza della propria condizione di esilio (= idea di un Eden perduto e da riconquistare attraverso l’ “ispirazione”)

Cesare Pavese

Cesare Pavese è convinto che i miti cruciali tanto per la mente che per l’arte sono quelli personali che si fissano nell’infanzia di ogni uomo. Per lui, dunque, anche l’Ulisse della poesia inclusa in Lavorare stanca (1936) è un mito individuale prima che collettivo. Come il nome dell’eroe, confinato nel titolo, fuori dalla “soglia del testo”, anche l’intero mito tradizionale, con le sue varianti comunque penetrate nella coscienza collettiva, resta escluso dal componimento, realistico fino a far nascere il dubbio che il nome possa essere quello di un abitante delle Langhe piuttosto che del re di Itaca (quello che invece nei Dialoghi con Leucò Pavese fa discorrere con Calipso).

Tratto da ULISSE E IL VIAGGIO di Livia Satriano
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