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Conglobamento e commissioni interne dei sindacati negli anni '50


La sconfitta nella lunga vertenza sul conglobamento che si concluse nel giugno '54 con la firma separata dell'accordo fra CISL, UIL e CONFINDUSTRIA, fu un chiaro segnale del declino e dell'isolamento della CGIL.
Con tale accordo i lavoratori ottenevano il conglobamento in busta paga di varie indennità e voci che si erano moltiplicate negli ultimi anni di guerra e nel dopoguerra con una razionalizzazione dei salari e un aumento medio del 5%: si trattava di un aumento assai inferiore rispetto a quello richiesto dalla CGIL e per di più pagato con l'accrescimento del numero delle gabbie salariali che si ritorceva a svantaggio dei lavoratori meridionali.

La seconda sconfitta per la CGIL fu la perdita della maggioranza nelle CI in alcune grandi fabbriche come la FIA T, la OM e la Falck nel marzo '55, a favore del rafforzamento della CISL e UIL. Tutto ciò avveniva nel momento in cui il calo degli iscritti alla CGIL si era accentuato sia pure nel contesto di una tendenziale desindacalizzazione del paese favorita dall'immissione nei processi produttivi di una nuova generazione di lavoratori, per lo più meridionali.
Questa sconfitta accelerò i tempi della riflessione sulla natura e sul ruolo del sindacato e sugli errori commessi dalla CGIL che aveva puntato tutto sulla grande contrattazione nazionale gestita dal centro distaccandosi dalla realtà delle fabbriche e dalle condizioni dei lavoratoti.
Lo stesso Di Vittorio, al comitato esecutivo della fine di aprile del '55, parlò di "ritorno in fabbrica", tema che divenne centrale al congresso della CGIL del febbraio '56 ove l'autocritica del sindacato si estese alla mancata comprensione dei nuovi processi produttivi e delle esigenze dei lavoratori.
Questa autocritica non portò ad una vera revisione organizzativa in chiave aziendalistica della CGIL ma, fin d'allora, fu posto il problema di integrare la grande contrattazione nazionale di categoria con la negoziazione aziendale.
La cultura della CGIL restava quella del grande sindacato di classe che persegue politiche generali e generalizzanti e che tende a favorire l'uniformizzazione delle condizioni salariali e normative dei lavoratori.
La lotta doveva trasferirsi dentro le aziende per migliorare le condizioni dei lavoratori senza che questo significasse perdita della piena libertà di azione sindacale, senza alcuna accettazione del principio delle compatibilità fra aumento dei profitti e crescita dei salari.

Nel congresso del '56 si parlò della necessità di dare centralità alla ridistribuzione del reddito. Questo significava implicitamente prendere atto che lo sviluppo economico in corso poteva divenire un fatto positivo per migliorare le condizioni dei lavoratori, invece che progettarne lo scardinamento. Nello stesso congresso si parlò di previdenza e riforma sanitaria e si lasciò intendere che IRI e ENI potevano avere un ruolo centrale nello sviluppo del paese e delle RI.
La CGIL cominciava ad avere un atteggiamento revisionistico a cui fece seguito un complesso di eventi internazionali ed interni: la crisi comunista legata ai XX congresso del PCUS; il processo di destalinizzazione; la repressione ungherese (che Di Vittorio condannò in un primo momento per poi tornare sui suoi passi successivamente su pressione del PCI); il deterioramento dei rapporti con CISL e UIL.
Nel discorso che Di Vittorio pronunciò al congresso del PCI fu netta la rivendicazione della distinzione dei ruoli e delle funzioni fra sindacato e partito.
Parlò della "cinghia di trasmissione" che doveva essere liquidata senza che questo significasse indipendenza delle due realtà che dovevano mantenere obiettivi comuni pur nella distinzione delle competenze.
Tuttavia la crisi del PCI che subì la perdita di molti iscritti e l'allontanamento del PSI, raffreddò le aspirazioni autonomistiche della CGIL.

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