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Il Bioetanolo

È definito bioetanolo, l’etanolo (o alcol etilico) ricavato dalla biomassa e/o dalla parte biodegradabile dei rifiuti. La sua classificazione come biocarburante di prima o di seconda generazione è basata esclusivamente sulle materie prime impiegate, poiché le caratteristiche del prodotto finale sono identiche. Il bioetanolo, in virtù delle sue proprietà chimiche-fisiche è in grado di sostituire la benzina nei motori. Per alcune proprietà il bioetanolo ha un comportamento migliore di quello della benzina. Il biocarburante evidenzia una capacità antidetonante maggiore di quella della benzina, poiché presenta un valore più elevato per il numero di ottano. La volatilità del bioetanolo, espressa dalla temperatura di ebollizione e dalla tensione di vapore, è superiore a quella della benzina. Ne consegue una miscelazione con l’aria più veloce e omogenea nel corso della carburazione, che contribuisce a migliorare la combustione, l’avviamento a freddo del motore e le prestazioni in accelerazione. La principale caratteristica che rende il bioetanolo un carburante dal comportamento peggiore rispetto a quello della benzina è la densità energetica: in considerazione dei valori di PCI, infatti, per sostituire un chilogrammo di benzina sono necessari 1,67 chilogrammi di bioetanolo. Il bioetanolo di prima generazione è prodotto dalle materie prime di natura zuccherina (o saccarifera) e amidacea (o amilacea), derivanti sia dalle colture dedicate, sia dai residui agricoli e dell’industria agroalimentare. Quelle ritenute più indicate alle condizioni climatiche italiane sono la barbabietola da zucchero e il sorgo zuccherino, per quanto riguarda le saccarifere, e il mais, per quanto concerne le amidacee. I residui agroalimentari, attualmente convertiti in bioetanolo, derivano, invece, dalla fermentazione del melasso, sottoprodotto della filiera per la produzione dello zucchero, dalla distillazione delle eccedenze del vino e delle materie vinose e dalla fermentazione delle eccedenze di frutta. La produzione del bioetanolo di seconda generazione, ossia quello ottenuto dalle materie prime ligno-cellulosiche, attualmente ha luogo soltanto alla scala pilota, poiché sono in corso di ottimizzazione alcune fasi della filiera. La complessità dell’impiego di queste materie prime è dovuta soprattutto all’elevata resistenza dei carboidrati in esse contenuti (cellulosa ed emicellulosa) a essere scissi in zuccheri fermentescibili. Le materie prime di natura ligno-cellulosica per la produzione del bioetanolo possono provenire dalle colture dedicate o dalle biomasse residuali; le colture alcoligene ligno-cellulosiche ritenute più idonee alle condizioni climatiche italiane sono il sorgo da fibra, la canna comune e il panico. Le biomasse residuali, che possono essere utilizzate per la produzione del bioetanolo, sono i residui agroforestali e la frazione organica dei rifiuti solidi urbani. La loro valorizzazione risulta strategica,
in considerazione del basso valore di mercato e dell’ampia disponibilità. In considerazione dell’eterogeneità delle materie prime che possono essere utilizzate, la descrizione del processo per la produzione del bioetanolo è articolata in tre sezioni: saccarifera, amidacea (o amilacea) e ligno-cellulosica. Le sezioni della filiera si diversificano nella prima fase del processo, mentre coincidono negli ultimi segmenti (fermentazione, distillazione e disidratazione). La sezione saccarifera per la produzione del bioetanolo gode di una processistica di impianto più semplice rispetto a quella delle altre sezioni della filiera, poiché le materie prime contengono i carboidrati già in forma fermentescibile (glucosio, fruttosio, saccarosio). La prima fase consiste nell'estrazione degli zuccheri.  L’estrazione è condotta con modalità diverse a seconda della coltura impiegata. Al termine dell’estrazione, il succo zuccherino è avviato alla fermentazione. Nella barbabietola gli zuccheri sono accumulati nella radice. Il sottoprodotto dell’estrazione è la polpa che, una volta essiccata, può essere utilizzata nell’alimentazione zootecnica. Il sorgo zuccherino, invece, è raccolto allo stadio in cui gli zuccheri risultano accumulati nei tessuti dello stelo. La sezione amidacea, invece, è caratterizzata dall’esigenza di trasformare l’amido, contenuto nella granella, in zuccheri fermentescibili mediante la reazione di idrolisi. La prima fase risulta essere, dunque, la macinazione della granella per massimizzare la resa della successiva fase di idrolisi. La macinazione può essere condotta secondo due modalità:
macinazione per via secca: la granella è sottoposta a triturazione meccanica e solo successivamente è miscelata ad acqua;
macinazione per via umida: la granella è pretrattata con una soluzione di anidride solforosa.
A questo punto la rottura delle catene di amido in zuccheri fermentescibili è ottenuta mediante l’impiego di enzimi e avviene in due fasi. La prima fase, detta liquefazione, è finalizzata a ridurre la lunghezza delle catene dell’amido e si avvale dell’enzima α-amilasi. La seconda fase, denominata saccarificazione, è diretta alla liberazione degli zuccheri fermentescibili (principalmente glucosio) e avviene a opera dell’enzima gluco-amilasi. Al termine dell’idrolisi si procede con la fermentazione alcolica. Nella sezione ligno-cellulosica, invece, per la produzione del bioetanolo è gravata da una complessità, che a oggi la penalizza rispetto alle altre sezioni della filiera, e che ne giustifica l’attuale stato di immaturità tecnologica. Nella parete cellulare, infatti, l’emicellulosa e la cellulosa, convertibili in bioetanolo, sono saldamente strutturate con la lignina, non trasformabile in bioetanolo. Alcuni zuccheri semplici, liberati nel corso della degradazione dell’emicellulosa (xilosio, arabinosio, mannosio), inoltre, risultano difficilmente fermentescibili. La ricerca scientifica sta mettendo in atto importanti investimenti in questo settore per il superamento degli attuali ostacoli. La prima fase, comunque, è il pretrattamento della biomassa. Questa operazione è diretta a disorganizzare la struttura della parete cellulare e a separare la cellulosa e l’emicellulosa dalla lignina. Il pretrattamento può essere condotto secondo diverse modalità uno dei quali è il pretrattamento biologico che si avvale dell’impiego di microrganismi, che disgregano la parete cellulare, degradando la lignina. In particolare sono in corso di studio su alcuni funghi, tra cui Phanerochaete chrysosporium. I risultati finora conseguiti, tuttavia, mettono in evidenza come i pretrattamenti di natura chimica e chimico-fisica siano più promettenti, soprattutto per il rendimento
della successiva idrolisi enzimatica. In questo caso,  un effetto indesiderato del pretrattamento è la formazione di sotto-prodotti (composti ottenuti dalla degradazione del furano, acidi organici a basso peso molecolare, composti fenolici), che inibiscono l’attività fermentativa dei microrganismi. Questi inibitori possono essere rimossi mediante un processo di detossificazione. A questo punto  la biomassa pretrattata e detossificata è avviata all’idrolisi della cellulosa e dell'emicellulosa in maniera enzimatica. Per la rottura delle catene di cellulosa ed emicellulosa si ricorre a tre famiglie di enzimi, isolati principalmente dal fungo ascomicete Trichoderma reesei.
1.Le endocellulasi scindono le catene al loro interno, rompendole in frammenti più corti.
2.Le esocellulasi attaccano le estremità delle catene, liberando zuccheri semplici (monomeri e dimeri).
3.La β-glucoside glucoidrolasi scinde i dimeri in monomeri.
A questo punto la biomassa idrolizzata è avviata alla fermentazione alcolica. La fermentazione è la fase in cui gli zuccheri semplici sono convertiti in bioetanolo per azione di microrganismi. Il microrganismo comunemente adottato è il lievito della birra (Saccharomyces cerevisiae), la cui attività è ottimale alla temperatura di 33-35°C e pH di 3-5. Questo lievito accumula il bioetanolo nel mezzo di crescita fino a una concentrazione massima dell’11% in volume, mentre risulta inibito per valori più alti. Per superare questo limite fisiologico, è stata messa a punto la fermentazione in continuo, che si avvale di diverse soluzioni tecniche dirette a mantenere la concentrazione del bioetanolo in prossimità dei microrganismi entro dei valori di tolleranza. Le modalità con cui è condotta la fermentazione alcolica sono analoghe per tutte le sezioni della filiera del bioetanolo. La sezione ligno-cellulosica fa eccezione, ma solo in merito al tipo di microrganismo adottato: data la presenza di zuccheri difficilmente fermentescibili, derivanti dal catabolismo dell’emicellulosa, sono in corso di individuazione per la loro trasformazione in bioetanolo microrganismi più efficienti del tradizionale lievito della birra. Le ricerche sono focalizzate in particolare su Escherichia coli, Thermoanabacter mathranii e Zymomonas mobilis. Dopo la fermentazione si passa alla distillazione e alla disidratazione. Queste ultime due fasi consentono al bioetanolo di essere utilizzato come combustibile fossile e possono essere condotte con diverse tecniche:
Distillazione azeotropica: è articolata in due operazioni, la distillazione chimica propriamente detta, che consente l’estrazione del bioetanolo, delle altre sostanze volatili e di una certa quantità di acqua, e la rettifica, che permette l’eliminazione delle sostanze volatili e dell’acqua. La rettifica si avvale dell’impiego di un solvente, generalmente benzene, che separa le diverse fasi liquide all’interno di un sedimentatore.
Disidratazione per evaporazione: si avvale di membrane selettive, che consentono di sottrarre al bioetanolo l’acqua e le altre sostanze volatili presenti in forma di vapore nel corso della distillazione.
Disidratazione per osmosi inversa: l’acqua passa da una soluzione più concentrata di bioetanolo a una meno concentrata, grazie all’applicazione di una pressione uguale o superiore a quella osmotica.

Tratto da BIOTECNOLOGIE MICROBICHE E AMBIENTALI di Domenico Azarnia Tehran
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