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Le sentenze 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale

A questo punto desidero soffermarmi sull’analisi di due recenti e rivoluzionarie pronunce della Corte Costituzionale, cioè le sentenze 348 e 349 del 2007.

Queste due pronunce hanno modificato i criteri di calcolo dell’indennità alla luce dei fondamentali principi europei.
La sentenza n. 348 concerne la determinazione dell’indennità per espropriazione legittima, mentre la n. 349 riguarda l’indennità prevista per la cosiddetta “occupazione acquisitiva”, cioè il caso dell’occupazione illegittima.
La Corte Costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 349, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale rispettivamente delle norme di legge che non indennizzano al valore di mercato l´espropriazione delle aree edificabili e di quelle che non prevedono un ristoro integrale del danno subito nel caso di espropriazioni illegittime.

La sentenza 348/20007

In particolare, con la sentenza 348/2007 la Corte costituzionale prende in esame la corresponsione dell’indennità di esproprio delle aree edificabili, che aveva retto all’esame di legittimità costituzionale per 15 anni. E fa ciò dichiarando l’illegittimità dell’articolo 5 bis del decreto legge 333/1992, sulla spinta delle varie pronunce della Corte di Strasburgo, che aveva più volte condannato l’Italia ritenendo tale disciplina in contrasto con l’articolo 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), il quale dispone che: “ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.
L’art. 5 bis del decreto legge 333/1992, in particolare, stabiliva un criterio di indennizzo pari alla semisomma del valore venale e del valore della rendita catastale, il tutto ridotto del 40%.
La Corte di Strasburgo riteneva che i criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana portassero alla corresponsione di una somma di gran lunga inferiore al valore di mercato del bene espropriato, e di conseguenza irragionevole, soprattutto nel caso di occupazione acquisitiva, e che, quindi, l’Italia avesse il dovere di porre fine a questa violazione dell’articolo 1 del I protocollo della CEDU, anche per evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in controversie di fronte alla stessa Corte, già molto numerose.
La questione riguarda quindi il contrasto tra la norma censurata e l’articolo 1 del I protocollo CEDU, in quanto i criteri di determinazione dell’indennizzo dovuto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di pubblico interesse comportano il pagamento di somme ritenute sproporzionate al valore dei beni.

La sentenza n. 349/2007

Con la sentenza n. 349, invece, la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 5 bis, comma 7 bis, del decreto legge 11 luglio 1992, n. 333, il quale prevede, nel caso di occupazioni illegittime per causa di pubblica utilità (occupazione acquisitiva) intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, lo stesso criterio indennitario delle occupazioni legittime con l’esclusione della riduzione del 40%.
L’incostituzionalità delle due norme viene, perciò, sancita a causa del principio del «serio ristoro» ritenuto indispensabile dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, e del necessario “ragionevole legame” con il valore venale, ormai richiesto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con l’essenziale “serio ristoro”.

A questo punto, la Corte deve decidere come interpretare la sua stessa funzione di garante della Costituzione: e cioè riconoscere il ruolo sovraordinato delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perdendo in questo modo la sua potestà interpretativa delle norme costituzionali, oppure negare rilievo alla Corte dei diritti nella materia dell’indennità espropriativa.
E’ necessario distinguere le norme CEDU da quelle comunitarie, nel senso che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, sono norme internazionali pattizie che vincolano lo Stato ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno; pertanto, le norme della CEDU, a differenza delle norme comunitarie, non vincolano il giudice interno alla loro applicazione diretta e alla conseguente disapplicazione della norma interna.
La Corte costituzionale infatti afferma “…Con l'adesione ai Trattati comunitari, l'Italia è entrata a far parte di un "ordinamento" più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale da cui derivano "obblighi" per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano…
La Corte costituzionale ritiene quindi che la CEDU, in quanto norma pattizia, non ha efficacia diretta nell’ordinamento nazionale.
Essa non ha un ruolo sovraordinato rispetto alle norme costituzionali, e a differenza dei Trattati dell’Unione europea, non crea un nuovo ordinamento giuridico sovranazionale, i cui atti sono immediatamente applicabili negli Stati contraenti, cosicché non si può disapplicare la norma interna in contrasto con la CEDU.
Non è nemmeno possibile giustificare un adattamento automatico alle norme CEDU da parte del diritto italiano sulla base dell’art. 10 della Costituzione, in quanto questo effetto non riguarda le norme pattizie.
La Corte, per regolare la questione, utilizza perciò l’art. 117 Cost. (introdotto nel nostro ordinamento con la legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 in seguito alla riforma del titolo V della Costituzione), il quale conferma l’orientamento della Corte: esso distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».
L’art. 117 introduce appunto, come vincolo all’attività legislativa delle Stato e delle Regioni, quelli “derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla CEDU, cosicché anche gli obblighi internazionali diventano criterio di legittimità delle norme interne. Ed è proprio in relazione all'art. 117 primo comma Cost. che la Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la censura di legittimità costituzionale dell’art. 5 bis.
La questione si incentrava sul presunto contrasto tra l’art. 5 bis e l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo, in quanto i criteri di calcolo per determinare l'indennizzo corrisposto ai proprietari di aree edificabili espropriate per motivi di pubblico interesse determinano la corresponsione di somme sproporzionate rispetto al valore dei beni espropriati.
Ciò era già stato oggetto di valutazione da parte della Corte Costituzionale, con la sentenza 283/1993, con la quale era stata respinta la questione di legittimità costituzionale, proposta in quel caso in relazione agli artt. 3, 24, 42, 53, 71, 72, 113 e 117 della Costituzione.
La Cassazione, in particolare, non chiede di modificare tale orientamento, ma sottolinea che il testo riformato dell'art. 117 primo comma Cost. richiede un nuovo esame della norma censurata in relazione a questo parametro, appunto non esistente al momento della sentenza 283/1993.
La stessa Corte Costituzionale, infatti, aveva stabilito che “…l'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42 comma terzo Cost., se non deve costituire una integrale riparazione della perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse generale che l'espropriazione mira a realizzare - non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare un serio ristoro. Perché ciò possa realizzarsi, occorre far riferimento, per la determinazione dell'indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all'espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene…” Il principio del serio ristoro veniva violato, secondo tale pronuncia, quando, “… per la determinazione dell'indennità, non si considerino le caratteristiche del bene da espropriare ma si adotti un diverso criterio che prescinda dal valore di esso…”

Autorità espropriante e norme CEDU

Da questa affermazione della Corte Costituzionale prende il via la questione, evidenziandosi che il bilanciamento tra interesse dell’Autorità espropriante (interesse pubblico appunto) e interesse del privato è un concetto relativo, in quanto questo equilibrio muta nel tempo e secondo le esigenze socio finanziarie del Paese, e richiede quindi una nuova analisi alla luce del mutato quadro normativo rispetto a quello esistente al momento della sentenza n. 283/1993 (che aveva giustificato la legittimità costituzionale dell’art. 5 bis).
Secondo il parere della Corte, il nuovo art. 117consente alla Corte di valutare la conformità degli obblighi internazionali alla Costituzione. “L'art. 117, primo comma, Cost, il quale, nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali indubbiamente rientrano quelli derivanti dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo, se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza della Corte costituzionale, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale, sicché il giudice comune non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, presentandosi l'asserita incompatibilità tra le due come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., di esclusiva competenza del giudice delle leggi”.
L’art. 117 ha cioè consentito di comprendere le norme CEDU nella sfera di competenza della Corte costituzionale; la Corte risolve, perciò, la questione, affermando di essere l’unica a dover valutare la conformità della CEDU alla Costituzione. Non basta, perciò, l’interpretazione della Corte dei diritti dell’uomo per ritenere, nel caso di specie, illegittima la norma impugnata in materia di indennità di espropriazione, ma vi è sempre bisogno di un giudizio della Corte costituzionale sulla conformità di tale norma alla Costituzione. In via generale, la sentenza n. 349 afferma che “questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo…. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa”. Rimane affidata al legislatore la determinazione di un’adeguata indennità, poiché, rispettando i rispettivi ruoli, la Corte dichiara l’illegittimità del modo di determinazione dell’indennità fissato dalla norma incostituzionale, ma lascia al legislatore il compito di stabilire come debba essere calcolata. Tuttavia, né nella sentenza della Corte costituzionale né nelle varie decisioni della Corte dei diritti si afferma che l’indennità debba essere uguale al valore venale del bene, anche se questo deve essere considerato parametro di riferimento dell’indennità. Ciò è dichiarato esplicitamente nella sentenza n. 348, in cui la Corte afferma che “il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato”, essendo al legislatore stesso rimesso di valutare se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte europea dei diritti dell'uomo, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti, dovendosi comunque escludere che singoli espropri per finalità limitate siano assimilabili a piani di esproprio volti a rendere possibili interventi programmati di riforma economica o migliori condizioni di giustizia sociale, e fermo restando che i criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione riguardante aree edificabili devono fondarsi sulla base di calcolo rappresentata dal valore del bene, quale emerge dal suo potenziale sfruttamento non in astratto, ma secondo le norme ed i vincoli degli strumenti urbanistici vigenti nei diversi territori. ”…. Criteri di calcolo fissi e indifferenziati rischiano di trattare allo stesso modo situazioni diverse, rispetto alle quali il bilanciamento deve essere operato dal legislatore avuto riguardo alla portata sociale delle finalità pubbliche che si vogliono perseguire, pur sempre definite e classificate dalla legge in via generale”.
Questo in quanto “l'art. 42 Cost. prescrive alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ma ne mette in risalto la «funzione sociale». Quest'ultima deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all'art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale”.Livelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata. Valuterà il legislatore se l’equilibrio tra l’interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all’orientamento della Corte europea, debba essere realizzato in modo differenziato, in rapporto alla qualità dei fini di utilità pubblica perseguiti”.
Differente è la conclusione a cui giunge la sentenza n. 349 sul punto specifico, poiché, nel caso di occupazione acquisitiva, l’illiceità della condotta dell’amministrazione comporta il pagamento di una somma equivalente al valore venale del bene, secondo una costante interpretazione della Corte di Strasburgo. Ma nel frattempo, in attesa dell’intervento del legislatore, la situazione lascia ritenere che si torni all’articolo 39 della legge 2359/1865, che fa riferimento al valore di mercato. Rimane, invece, ancora una differenza tra Corte costituzionale e Corte dei diritti circa la valutazione sulla legittimità dell’occupazione acquisitiva. A partire dal 2005, la Corte dei Diritti ritiene infatti che l’occupazione acquisitiva contraddice il principio di legalità e il buon andamento dell’amministrazione e non può essere, dunque, considerata un modo lecito di trasferimento della proprietà.
La Corte costituzionale, invece, si limita a pronunciarsi solo sulla misura dell’indennità in quanto “entrambe le ordinanze di rimessione non sollevano il problema della compatibilità dell'istituto dell'occupazione acquisitiva in quanto tale con il citato art. 1, ma censurano la norma denunciata esclusivamente nella parte in cui ne disciplina la ricaduta patrimoniale” (sentenza. 349/2007). Dunque, l’impugnato criterio indennitario per l’espropriazione di suoli edificatori cessa (sent. 348), ma l’istituto dell’occupazione acquisitiva non è stato affatto eliminato dal nostro ordinamento, essendo anzi rimasta inalterata la disciplina prevista dall’art. 43 del d.p.r. 327 del 2001, che prevede l’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico.

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