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La disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa

Evoluzione storica della disciplina della pubblicità ingannevole


La pubblicità è uno degli elementi che caratterizzano le società industrializzate, e può essere definita come la forma di comunicazione con cui un imprenditore si rivolge al pubblico, principalmente attraverso i mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio e televisione) al fine di promuovere i suoi prodotti e servizi.
Al giorno d’oggi diviene però necessario garantire che essa non induca i suoi destinatari in inganno, proteggendo in questo modo i concorrenti e, in maniera ancora più ampia, i consumatori.
Infatti, condizione per il buon funzionamento della concorrenza e del mercato è la libertà di scelta dei consumatori, cioè la messa a disposizione di informazioni che permettano loro di scegliere consapevolmente fra i prodotti e i servizi offerti sul mercato. Dato che tali informazioni vengono fornite principalmente attraverso la pubblicità, occorre che essa non tragga in inganno i destinatari durante le loro scelte, spingendo i consumatori ad acquistare un prodotto che altrimenti non avrebbero acquistato, e pregiudicando la possibilità, per i concorrenti, di far conoscere i propri prodotti e servizi.
La pubblicità è, infatti, oggetto di una disciplina complessa posta a tutela di consumatori e di concorrenti, con lo scopo di assicurare il buon funzionamento del mercato e della concorrenza.
Prima del 1992, però, mancava una disciplina che vietasse la pubblicità ingannevole. L’unico strumento di tutela contro questa forma di pubblicità illecita era infatti fornito dalla disciplina sulla concorrenza sleale (artt. 2598 e seguenti cc).
La disciplina della concorrenza sleale è invece oggi affiancata da una specifica normativa contro la pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa: si è infatti deciso di colmare il vuoto legislativo prima esistente emanando il d.lgs. 74/1992, il quale ha attuato in Italia la direttiva comunitaria 84/450/CEE, che stabiliva i principi generali in materia di pubblicità ingannevole ai quali le legislazioni degli stati membri dovevano uniformarsi.
Negli anni ’60, inoltre, si è dato vita al codice di autodisciplina pubblicitaria, che stabilisce le regole sulla pubblicità che devono essere rispettate dalle imprese, assicurandone l’osservanza attraverso il Comitato di Controllo e il Giurì.
La disciplina della pubblicità ingannevole e quella della pubblicità comparativa sono poi state inserite all’interno del decreto legislativo 206/2005 (Codice del consumo) agli articoli da 18 a 27, abrogando in questo modo i precedenti testi di legge, che si applicheranno ancora soltanto ai comportamenti tenuti dalle imprese prima del 2007.
Tali discipline sono poi state portate fuori dal Codice del consumo e sono oggi contenute nel d.lgs. 145/2007.
Tale decreto tutela esclusivamente i professionisti (cioè gli operatori economici professionali) dalla pubblicità ingannevole o comparativa illecita posta in essere da altri professionisti e dalle sue conseguenze sleali.
Il Codice di consumo, modificato dal d.lgs. 146/2007, tutela invece appositamente i consumatori, in quanto contiene oggi la disciplina relativa alle pratiche commerciali scorrette tra professionista e consumatori.


La disciplina della pubblicità ingannevole dettata dal decreto legislativo 145/2007

Il d.lgs. 145/2007, che ha sostituito il d.lgs. 74/1992, non introduce, rispetto a tale testo legislativo, elementi di novità per quanto riguarda la disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa, della quale ridefinisce semplicemente il campo di applicazione.
Precisamente, il d.lgs. del 1992 tutelava tanto i professionisti quanto i consumatori dalla pubblicità ingannevole, invece quello del 2007 tutela appositamente il professionista.
Il consumatore, oggi, è invece tutelato dal d.lgs. 206/2005, cioè il codice del consumo, nel quale per “consumatore” si intende, ai sensi dell’art. 3, lett. a), “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”.
Infatti, se la pubblicità ingannevole danneggia il concorrente, essa danneggia però anche, e soprattutto, i consumatori, influenzati scorrettamente nella scelta tra i vari prodotti e servizi presenti sul mercato.

Il d.lgs. 145/2007 si prefigge, dunque, lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, oltre a stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa (art. 1 d.lgs.145/2007).
In base all’art. 2 di tale decreto, i professionisti  sono intesi come, “qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale; e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista”: tutelati saranno, pertanto, anche i liberi professionisti e i privati che svolgano individualmente un’attività commerciale.
Con il termine “pubblicità” si intende in generale quella comunicazione diffusa su iniziativa di operatori economici, attraverso mezzi come la televisione, la radio, i giornali, ma anche gli SMS, Internet e le email, la quale tende ad influenzare le scelte dei destinatari riguardo ai beni e ai servizi offerti sul mercato.
La nozione di “pubblicità” che fornisce il decreto è molto ampia, comprendendo “qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il  trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi” (art. 2, lettera a) e comprende persino la confezione dei prodotti (il c.d. “packaging”) (art. 8, comma 10) ed anche le azioni di c.d. merchandising, cioè le azioni promozionali effettuate nei punti vendita.
E’ quindi pubblicità qualsiasi comunicazione rivolta ad un numero indeterminato di persone per promuovere la vendita di prodotti o servizi, indipendentemente dal contenuto e dal mezzo di diffusione.
Sono escluse dalla definizione le pubblicità che non si riferiscono ad attività economiche, quali la pubblicità politica (propaganda) e la pubblicità sociale.
E’ “ingannevole”, ai sensi dell’art. 2, lettera b, del d.lgs. 145/2007, “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione” (cioè il modo in cui il messaggio pubblicitario viene inserito nel giornale o nel programma televisivo, ecc.), “e' idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”.
Da questa definizione si desume innanzitutto che, al fine di ottenere la tutela fornita dalla norma, non è necessario che la pubblicità ritenuta ingannevole abbia concretamente prodotto un danno; è sufficiente, infatti, l’idoneità della messaggio pubblicitario ad ingannare. Basta, cioè, che le informazioni siano idonee a trarre in inganno il pubblico potendone pregiudicare il suo comportamento, oppure a ledere le imprese concorrenti.
Inoltre, dal fatto che l’inganno può derivare anche dalla presentazione della pubblicità si desume che è ingannevole ogni tipo di pubblicità, in qualsiasi forma venga comunicata; l’importante è, appunto, che essa sia idonea ad ingannare i destinatari, dando loro informazioni che possono condizionare le loro scelte, inducendoli, magari, a preferire un certo prodotto anziché un altro, in quanto convinti che tale prodotto presenti delle caratteristiche che invece non possiede.
Un messaggio può essere considerato ingannevole non solo se contiene informazioni false, ma anche se si esprime in modo ambiguo o se omette di fornire informazioni necessarie ai fini della valutazione dell’offerta.
Non è neppure necessario dichiarare qualcosa di palesemente falso per ingannare: può accadere, infatti, e spesso accade, che le singole affermazioni contenute nella pubblicità siano vere, ma falso sia il modo in cui è costruito il messaggio, in maniera che l’interpretazione dei destinatari sia errata.
Un esempio è fornito da quelle pubblicità che pongono eccessivamente l’accento sulla convenienza di un’offerta, ma poi inseriscono delle frasi scritte in caratteri molto piccoli, posizionate molto spesso alla fine del messaggio, che specificano le limitazioni dell’offerta, in maniera tale da rendere poi inesistenti i vantaggi in precedenza enunciati.
Per determinare se la pubblicità sia ingannevole si tiene conto delle caratteristiche dei beni o dei servizi, del prezzo, delle condizioni di fornitura del bene o della prestazione del servizio, della natura, delle qualifiche e dei diritti dell’operatore pubblicitario, cioè del soggetto da cui la pubblicità proviene (art. 3).
Sono, questi, tutti elementi a cui il pubblico attribuisce rilevanza nel momento in cui sceglie i prodotti o i servizi, e sui quali è quindi facile cadere in errore.
Inoltre, per quanto riguarda le ipotesi speciali di ingannevolezza, il d.lgs. 145/2007 contiene le regole sulla pubblicità dei prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza  dei consumatori (art. 6) e sulla pubblicità che possa raggiungere i minori (art. 7), regole che non erano presenti nella direttiva 84/450/CEE.


L’ingannevolezza delle modalità di presentazione. La pubblicità non trasparente

L’art. 5 del d.lgs. 145/2007 fa riferimento alla “trasparenza” della pubblicità che “deve essere chiaramente riconoscibile come tale”, quindi non occulta, falsa o menzognera.
Aggiunge il decreto che “la pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione”.
La pubblicità di un prodotto deve essere percepibile come tale agli occhi di chiunque, in modo che il pubblico riservi la dovuta attenzione al messaggio.
Tutto ciò in quanto un messaggio pubblicitario non immediatamente riconoscibile, ponendosi agli occhi del pubblico come qualcosa di diverso dalla pubblicità, finisce per approfittarsi dei destinatari, esercitando su di loro una più intensa azione persuasiva.
Infatti, un soggetto che ritenga che ciò a cui sta assistendo sia informazione o spettacolo, quindi una comunicazione che non abbia come scopo quello di invitare all’acquisto, tenderà in maniera maggiore a ritenere che ciò che viene comunicato sia vero.
Per questo motivo gli stacchi pubblicitari al cinema, alla radio o in televisione sono introdotti da un’apposita sigla musicale, oppure riportano l’indicazione “pubblicità”, “messaggio promozionale”, in modo da sottolineare in maniera, appunto, trasparente, quando una comunicazione ha come scopo quello di pubblicizzare un prodotto o un servizio e non un mero fine informativo.
Tra i principali tipi di pubblicità così vietati, sono quindi compresi la pubblicità redazionale (articoli di giornale che, in realtà, mirano a promuovere l’acquisito di beni o servizi), le telepromozioni non evidenziate come tali e il c.d product placement, cioè la pubblicità nascosta negli spettacoli cinematografici, che consiste nel posizionare, all’interno di film, prodotti dai marchi riconoscibili.
Una forma di pubblicità non trasparente, quindi vietata dall’art. 4, è quella subliminale, cioè quella comunicazione talmente rapida da venire assimilata a livello inconscio senza essere consapevolmente percepita dal destinatario.

Pubblicità di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza

Un soggetto può essere indotto in errore anche dall’omissione di notizie importanti che possono portarlo a sottovalutare i pericoli, riducendo, di conseguenza, la necessaria vigilanza.
A questo proposito, l’art. 6 del decreto legislativo 145/2007 si occupa della pubblicità di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza, disposizione che non era invece contenuta nella direttiva CEE 84/450.
Tale articolo impone un obbligo di informazione a carico degli operatori pubblicitari in relazione alla pericolosità dei loro prodotti, e ai rischi che da tale pericolosità possono derivare per la salute e la sicurezza.
E’ bene chiarire che per “operatore pubblicitario” si intende l’impresa committente del messaggio pubblicitario ed il suo autore, o, in mancanza di questi soggetti, il proprietario del mezzo di comunicazione che ha diffuso la pubblicità ovvero il responsabile della programmazione radiofonica o televisiva.
La violazione del suddetto obbligo di informazione rappresenta un altro caso di ingannevolezza, che, però, richiede anche un altro requisito oltre all’induzione in errore dovuta a mancata informazione, e precisamente il fatto che dall’omissione possa derivare l’inosservanza delle ”normali regole di prudenza e vigilanza”.
Sono quindi necessari due elementi fondamentali per giudicare l’ingannevolezza di un messaggio pubblicitario a norma della seguente disposizione, che sono l’omissione dell’informazione riguardante la pericolosità del prodotto e l’idoneità di questa mancata indicazione ad indurre l’utilizzatore del prodotto ad adottare comportamenti che si discostino dalle normali regole di prudenza e vigilanza.
Dunque la pubblicità di prodotti pericolosi soggiace alle medesime sanzioni dettate per la pubblicità ingannevole, ma, affinché un messaggio sia ritenuto ingannevole ai sensi dell’art.6, non è sufficiente la sola omissione dell’informazione relativa alla pericolosità del prodotto, ma è necessario che sussista un nesso causale tra l’omessa informazione e l’inosservanza delle normali regole di prudenza e vigilanza.
Anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha evidenziato come sia necessaria la presenza del nesso causale fra la condotta imprudente e la capacità del messaggio ad attivare tale comportamento.
E’ lecito domandarsi a questo punto che cosa debba intendersi per “normali regole di prudenza e vigilanza”.
La dottrina ha parlato di “quel complesso di cure e di cautele che ogni soggetto deve normalmente impiegare negli ordinati rapporti della vita, avuto riguardo alle concrete circostanze della situazione in cui si esplica la sua attività”.
Tale nozione richiama, quindi, il concetto di colpa generica dovuta a imprudenza.
La disposizione dell’art.6, però, opera esclusivamente quando i pericoli derivanti dall’uso del prodotto non sono immediatamente evidenti, senza che il pericolo del prodotto e i rischi derivanti dal suo uso siano esplicitamente indicati, inducendo il destinatario a non servirsi di quella prudenza che chiunque adotterebbe, specificazione che restringe quindi la categoria dei prodotti che si possono considerare pericolosi.
Cioè l’obbligo di informazione non sussiste quando la pericolosità del prodotto è nota al pubblico e quindi richiede una maggiore prudenza e diligenza da parte dell’utilizzatore finale.


Tutela dei minori

L’art. 7 del decreto del 2007 si occupa della tutela dei bambini e degli adolescenti; anche questa disposizione non era contenuta nella Direttiva 84/450.
La norma è rivolta ad una particolare categoria di soggetti destinatari, i quali necessitano di una più ampia protezione.
Quando la comunicazione pubblicitaria è diretta ai minori, infatti, è necessario adottare criteri più rigorosi per valutare l’ingannevolezza o meno del messaggio, ed è inoltre vietato diffondere messaggi idonei a mettere in pericolo la salute e la sicurezza dei minori.
Nel settore radio-televisivo, la legge n. 223/90 stabilisce che la pubblicità non deve arrecare un pregiudizio morale o fisico ai minorenni e deve pertanto rispettare alcuni criteri per la loro tutela, mentre l’art.11 del Codice di Autodisciplina dispone che una particolare cura deve essere posta nei messaggi che si rivolgano ai bambini e agli adolescenti o che possano essere da loro ricevuti.
Questi messaggi non devono contenere nulla che possa danneggiarli, né moralmente né fisicamente, e non devono abusare della loro naturale credulità o mancanza di esperienza.
L’art. 10 della legge 112/2004, afferma che le emittenti televisive devono rispettare le norme poste a tutela dei minori dal Codice di autoregolamentazione TV e minori.
Tale articolo così dispone: “le emittenti televisive sono altresì tenute a garantire l’applicazione di specifiche misure a tutela dei minori nella fascia oraria di programmazione dalle ore 16 alle ore 19 e all’interno dei programmi direttamente rivolti ai minori, con particolare riguardo ai messaggi pubblicitari, alle promozioni e ad ogni altra forma di comunicazione com-merciale e pubblicitaria”.
E ancora: “E’ comunque vietata ogni forma di comunicazione pubblicitaria avente come oggetto bevande contenenti alcool all’interno dei programmi direttamente rivolti ai minori e nelle interruzioni pubblicitarie immediatamente precedenti e
successive. Specifiche misure devono essere osservate nelle trasmissioni di commento degli avvenimenti sportivi, in particolare calcistici, anche al fine di contribuire alla diffusione tra i giovani dei valori di una competizione sportiva leale e rispettosa dell’avversario, per prevenire
fenomeni di violenza legati allo svolgimento di manifestazioni sportive”.
La norma di cui all’art.7 del suddetto decreto legislativo si basa appunto sulle suddette disposizioni.
Ai sensi di tale articolo, viene considerata ingannevole “la pubblicità che, in quanto suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti, abusa della loro naturale credulità o mancanza di esperienza o che, impiegando bambini ed adolescenti in messaggi pubblicitari, abusa dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani” o che, ancora, “può, anche indirettamente, minacciare la loro sicurezza”.
Tale norma richiede, quindi, il requisito dello sfruttamento dell’immaturità di questi soggetti.
L’ambito della sua applicabilità è vasto, in quanto riguarda la pubblicità rivolta ai più giovani (la quale può essere costituita, ad esempio, da immagini terrificanti che possono pregiudicare la salute mentale dei minori, o  in messaggi che invitano a tenere comportamenti pericolosi o che comunque costituiscono esempi diseducativi), ma anche quella pubblicità diretta agli adulti, ma in grado di essere conosciuta anche dai minori, così come si applica anche a quella pubblicità che, attraverso l’utilizzo di bambini e adolescenti nei messaggi pubblicitari, ha come destinatari gli adulti, finendo così per condizionare gli adulti attraverso l’utilizzo di messaggi pubblicitari che sfruttano i naturali sentimenti che le persone mature provano verso i più giovani (è ad esempio il caso della pubblicità che crei un senso di insicurezza nell’adulto che non acquisti il prodotto).

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