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Educare al cordoglio: Gilgamesh, Achille, Davide, Maria


Se una pedagogia della morte e del morire è ancora ben al di là dal delinearsi è vero però che le tracce implicite di questa pedagogia sono presenti nei numerosi tentativi di cantare il cordoglio, il lutto, l’addio.
La poesia ha narrato il punto di vista di chi resta al mondo, la sua angoscia e la sua voglia di condividere la morte con chi lo ha lasciato.
La poesia si è interrogata sulla brevità tragica della vita e sulla possibilità che tutto quanto abbiamo vissuto svanisca senza lasciare traccia con la nostra morte.
La poesia ha insegnato a piangere. Il cordoglio non è una attività spontanea per l’essere umano ma una struttura culturale.
Quelle che seguono sono storie che cercano, nella poesia, di dare un senso alla morte dell’altro:
a)l’Epopea di Gilgamesh dove l’eroe canta la morte di Enkidu. Gilgamesh piange Enkidu come amico, ma la tipologia di dolore che egli vuole esprimere sia collegata a quello che è il dolore massimo, ovvero il lutto dei genitori per la perdita del figlio, come se per esprimere la forza del dolore non esistesse esempio più penetrante. Il pianto prosegue attraverso una ricognizione degli spazi naturali e geografici che hanno visto approfondirsi l’amicizia tra Gilgamesh e Enkidu. Trasformare la morte di un “egli/ella” nella morte di un “tu” è fondamentale. Sono gli oggetti ad essere richiamati come elementi che sbloccano e arricchiscano la memoria dell’amico ucciso. Possiamo dare un valore agli oggetti che egli/ella ci lascia: oggetti dei quali vogliamo sbarazzarci al più presto oppure che vogliamo tenere sempre con noi. Gilgamesh s glie invece di metaforizzare gli oggetti dell’amico, personalizzandoli come segni viventi di memoria. “È la morte dell’altro, di uno specifico altro o altra a regalarci l’esperienza del morire, altrimenti a noi preclusa; la morte dell’altro ci richiama alla mente la nostra precarietà e la nostra mortalità. È la paura per la sua propria morte a sconvolgere nel profondo Gilgamesh.
b)il lamento di Achille per l’amico Patroclo. Abbiamo qui un chiaro esempio di gesti di separazione e di difesa nei confronti del morto: cospargersi la testa di polvere; strapparsi i capelli cui spesso segue il gettarli sul cadavere; percuotersi il petto (forma simbolica di autosoppressione, di autolesionismo controllato e ritualizzato che serve per mostrare al morto l’ampiezza del proprio cordoglio). Si tratta di ferite e umiliazioni simboliche che il pianto ritualizzato inscena per scongiurare il pericolo che il cordoglio porti il soggetto a infliggersi ferite reali.
Ma immediatamente il cordoglio per la morte dell’amico si trasforma in profezia a proposito della propria morte, nel senso della promessa di vendetta anche a costo della propria vita. Il lamento di Achille sembra poco centrato sull’amico da piangere e maggiormente su Achille stesso, sul suo ruolo di eroe.
Achille trova nel rito lo spazio per liberarsi almeno momentaneamente dell’identità guerriera e poter piangere fisicamente e corporalmente l’amico. Ed è a questo punto, finalmente, che Achille coglie nel profondo il senso della morte, non solo di Patroclo, ma di tutti coloro che egli ama; compaiono i confronti con le figure famigliari, e Achille si pensa figlio e padre, cogliendo la possibilità della perdita degli affetti. Achille ha capito di essere davvero mortale perché è mortale chi è circondato da mortali.
c)il pianto di Davide su Saul e su Gionata. Nel mondo giudaico il lamento funebre si definisce qinà: per il popolo ebraico la morte è sempre un elemento negativo, anche se la morte del giusto può costituire un modello positivo. Davide, nel momento in cui canta la morte di Gionata e Saul, si preoccupa di farne un insegnamento per il popolo e per le generazioni future: la morte del singolo diventa possibilità di modellizzazione del lutto. Pedagogica è la domanda che apre il lamento, “perché?”, alla quale sembra nessuno possa sottrarsi. Ad un certo punto della storia di Israele quando a dover essere lamentata non è più la sorte di un solo uomo ma di un intero popolo,”la qina funeraria si trasforma (...) in qina profetica, il lamento viene trasposto sul piano politico-religioso e morale-religioso”. Avremo allora le Lamentazioni che universalizzano il discorso funerario — dalla morte di un singolo uomo alla fine ingiusta di un intero popolo — e soprattutto prendono molto sul serio la domanda a proposito del “perché?”. E la domanda finale riguarda la possibilità di un abbandono da parte di YHWH.
d)Nei vangeli canonici la madre di Gesù non si lamenta, sta ferma, composta nel suo dolore: il modello della compostezza cristiana davanti al dolore, una compostezza alimentata dalla fede nella resurrezione. Ma questa pedagogia dello “stare” contrapposta al dinamismo del lamento, incontrerà sempre enormi difficoltà ad attestarsi come unico modello di elaborazione del lutto per il cristiano. Una testimonianza dell’equilibrio sempre instabile e sempre precario tra queste due pedagogie è rintracciabile in la laude Dona de Paradiso di Jacopone da Todi. Come in tutte le lamentazioni classiche la laude prende avvio dall’annuncio della morte di colui che sarà oggetto del pianto.
La condanna di Gesù è definitiva ed ecco allora che Maria incontra il figlio in croce. Maria si lamenta e attribuisce un senso alla morte del figlio.
Quello che Maria vuole dal figlio è un dialogo; non vuole che egli si nasconda, come il Dio degli ebrei quando il suo popolo lo chiama. Il lamento non è più un monologo, ma un dialogo; vedendo la madre che soffre, egli si lascia andare all’espressione di una forte emozione. E come ogni madre, anche Maria chiede la grazia che nessun Dio può darle chiede di morire con il suo figliolo. La lamentazione funebre torna a mostrarci come la morte del tu ci porti a riflettere sulla nostra morte. Il desiderio di morire con l’altro non è forse mai del tutto eliminabile dalla scena emotiva dell’essere umano.

Tratto da EDUCAZIONE E POESIA di Anna Bosetti
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