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La Grande Guerra: evento e racconto


La prima guerra tecnologica di massa costituisce un grande campo di riflessione intorno ai rapporti tra evento e memoria, tra memoria e oblio. Essa sembra determinare insieme una difficoltà di ricordare e una difficoltà di dimenticare, in altre parole apre una contraddizione tra il bisogno di rimuovere e la coazione a testimoniare, tra la coscienza dell’essere vittime e quella opposta di esser divenuti protagonisti, tra il senso della grandezza e quello dell’orrore.
In verità, la guerra veniva dimenticata non perché avesse solo sfiorato in superficie il sistema nervoso dei combattenti, ma piuttosto perché lo aveva offeso in profondità e nel contempo aveva modificato il loro quadro mentale.
Le parole dette o scritte dai combattenti vanno quindi, come vedremo, decodificate, interpretate anche alla luce dei silenzi consapevoli o meno. Ma alle parole non dette dai protagonisti vanno accostati, sostituiti, aggiunti altre parole, altri discorsi, altre immagini.
L’intenzione primaria di molte lettere che provenivano dal fronte non era quella di comunicare il proprio stato e la propria esperienza, ma più spesso di occultarla. Il bisogno di raccontare si scontra continuamente col desiderio di rimuovere.
La preoccupazione di rassicurare gli altri influenza del resto la corrispondenza dei soldati non meno del bisogno di farsi coraggio in proprio. Nominare le proprie paure significa infatti in certo senso rinforzarle, mentre il desiderio è quello di superarle.
Lo sguardo del soldato che scrive è rivolto alla famiglia e alla casa. E questa una constatazione di immediata evidenza allo spoglio degli epistolari.
La lettera presenta il carattere di terapia, diventa un mezzo di autoconservazione: scrivere a casa e ricevere posta sono innanzitutto modi per alleviare il dolore della lontananza e l’orrore dello stato presente.
I soldati dedicavano in effetti alla scrittura un tempo molto grande: alcuni scrivevano, circostanze permettendo, una volta al giorno, altri ogni due o tre giorni, e spesso non semplici cartoline ma lettere, non di rado assai lunghe.
Nelle stesse lettere il riferimento alla morte e più precisamente all’atto dell’uccidere è tutt’altro che assente. E vero che non mancano i casi come quello di un soldato che, per non nominare la morte, preferisce sistematicamente sostituire la parola con uno scarabocchio. Ma non mancano neppure quelli che parlano dell’uccisione dei nemici come di un divertimento.
Il bisogno implicito di rimozione, occultamento, copertura eufemistica e consolatoria che definisce il codice delle lettere sia tale da escludere che esse possano mai raccontarci l’esperienza di guerra nei suoi versanti più traumatici. Ci sono molti esempi in contrario. Anche l’inferno della battaglia trova insomma spazio, di quando in quando, nelle lettere dei soldati.
Le metafore della «frattura» e del «trauma», così spesso applicate alla storia della Grande Guerra, derivano entrambe dal linguaggio clinico, dalla patologia del corpo e della mente, a indicare una lesione violenta, una interruzione e una ferita che si potrà bensì suturare, ma che lascerà comunque il suo segno indelebile.
Doppiamente sacra è insomma la morte del medico, e di tutti coloro che in guerra svolgono funzioni sanitarie e di soccorso.
Ma talvolta la letteratura sembra uguagliare se non superare, nella descrizione degli orrori, il discorso medico; spesso supera le possibilità della testimonianza diretta, del linguaggio comune.
Non bisogna dimenticare il nuovo, potente modello di rappresentazione e di racconto: il cinema. Così scene reali di guerra vengono raccontate con procedure cinematografiche, come vere e proprie scene di un film.

Tratto da L'OFFICINA DELLA GUERRA di Anna Bosetti
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