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La cultura vista dall’interno


Considerata la difficoltà (o forse l’impossibilità) di capire la cultura «dall’esterno», altri studiosi si sono proposti di raggiungere il medesimo obiettivo studiando la cultura «dall’interno». E il cosiddetto approccio emico. Studiare una certa cultura «dall’interno» vuoi dire assumere il punto di vista dei nativi e concentrasi sulle forme specifiche, contingenti e irripetibili che quella cultura assume in quel momento storico. L’obiettivo è quello di cogliere l’unicità e l’esclusività di una data cultura. L’idea di fondo è che la cultura è dentro le persone. Questo punto di vista è stato ripreso anche dalla psicologia culturale, che ha molto insistito sul concetto di unicità, in quanto ogni cultura è un mondo a sé stante, diverso da ogni altro. Già lo psicologo russo Vygotskij (1934), che aveva contribuito a fondare la cosiddetta scuola storico-culturale russa, aveva sottolineato come lo sviluppo delle funzioni mentali superiori (linguaggio e pensiero) sia profondamente influenzato dalle condizioni sociali della comunità culturale di appartenenza.
Anche le cosiddette psicologie indigene ribadiscono che ogni comunità sviluppa specifiche conoscenze e competenze per adattarsi al suo ambiente fisico e sociale. La cultura, infatti, varia al variare delle condizioni ambientali. Per esempio, nelle tribù migratorie che vivono di caccia e raccolta le pratiche di socializzazione favoriscono la determinazione, l’autonomia, la fiducia in se stessi e la gestione dell’incertezza. Per contro, nelle comunità stanziali fondate sull’agricoltura sono incrementate caratteristiche come la condiscendenza, l’obbedienza, la cooperazione e il senso di responsabilità. A loro volta, nel contesto industriale le pratiche di socializzazione sostengono l’intelligenza tecnologica, le competenze comunicative, la gestione della distanza relazionale, la difesa dei propri interessi, la competitività.
L’approccio emico segue il metodo idiografico, che privilegia l’uso di procedimenti qualitativi d’indagine, come le interviste, il dialogo, la partecipazione alle pratiche dei nativi, ecc. Particolare rilievo è attribuito all’etnografia come dispositivo in grado di favorire la comprensione della situazione contingente attraverso il punto di vista del nativo. L’etnografia richiede una partecipazione diretta e prolungata alla vita sociale di una certa comunità con lo scopo di rendere esplicito ciò che è implicito e scontato. Per raggiungere questo fine si fa spesso ricorso all’osservazione partecipante, intesa come strumento non intrusivo in grado di cogliere le specificità di una data cultura.
Tuttavia, lo studio «dall’interno» della cultura non è esente da limiti e difficoltà. Innanzitutto, la sua impostazione favorisce il relativismo culturale, rendendo assoluto il valore dell’unicità.
Il relativismo culturale porta con sé, infatti, il problema della traducibilità dei modelli culturali da una cultura a un’altra. In secondo luogo, oggi il relativismo culturale è stato declinato da parte di alcuni politici e studiosi sotto forma di fondamentalismo culturale, premessa teorica per la versione attuale del razzismo. Non è più la razza a dover essere protetta ma la cultura nazionale, omogenea al suo interno e storicamente fondata. E il razzismo senza razza. Il diritto alla diversità diventa il diritto primario di difesa della propria unicità, consentendo di evitare ogni forma di contaminazione con altre culture e di procedere all’esclusione d espulsione di tutte le persone culturalmente diverse.

Tratto da LA MENTE MULTICULTURALE di Anna Bosetti
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