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Fissità culturali e religiose della CEDU


Questo esito trova ovviamente una clamorosa conferma nel modo di considerare l’Islam, rispetto al quale gli stereotipi si sprecano.
Significative sono le sentenze riguardanti lo scioglimento, da parte della Turchia, di un partito politico, il Refah Partisi, avente come programma quello di instaurare, senza escludere chiaramente l’uso della forza, un sistema multigiuridico fondato sulla discriminazione secondo le credenze religiose e sulla sharī’a come legge fondamentale.
Secondo la Corte risulterebbe oltremodo lesivo:
- del principio di non discriminazione, che comporta un “giusto equilibrio tra le rivendicazioni di certi gruppi religiosi che aspirano a reggersi secondo proprie regole e l’interesse della società nel suo complesso, che deve basarsi sulla pace e sulla tolleranza tra le diverse religioni o convinzioni”;
- del “ruolo dello Stato di garante dei diritti e delle libertà individuali e di organizzatore imparziale dell’esercizio delle diverse convinzioni e religioni in una società democratica, perché obbligherebbe gli individui ad obbedire non già alle regole dettate dallo Stato nell’esercizio delle funzioni precisate, ma alle regole statiche di diritto imposte dalla rispettiva religione”.
La Corte coglie esattamente la staticità delle regole delle comunità religiose e culturali, ma da per scontato che essa sia un carattere fisiologico dell’Islam, tradendo il pregiudizio fissista con cui si guarda alle culture e alle religioni.
Non è questo l’unico punto in cui la motivazione ruota intorno ad una “essenza” artificiosamente astorica di un Islam sempre e dappertutto uguale a se stesso.
Ancora più impressionante è l’idea fissista di una sharī’a “stabile e immutabile nel suo riflettere fedelmente i dogmi e le regole divine prescritte dalla religione”.
Come norme contrastanti con i principi democratici e i diritti umani accolti dalla Convenzione Europea, vengono indicate quelle di diritto e procedura penale, sulla condizione giuridica della donna e, in genere, sulla conformazione di tutti gli aspetti della vita privata e pubblica a norme religiose.
Ma il carattere oppressivo e democraticamente inaccettabile di queste norme discende direttamente e autenticamente dalla sharī’a, appartiene alla sua “grande tradizione”, o deriva dalle interpretazioni secolari e dagli usi locali, che essa ha subito e subisce, ma che non reggono al giudizio storico-critico?
La sentenza di condanna a morte a causa delle sue idee innovatrici eseguita nei confronti di un “martire musulmano per la libertà di coscienza”, il sudanese Mahmoud Mohamed Taha, secondo cui la perfezione della sharī’a “risiede proprio nella sua capacità di evolversi e di integrare le forze vive degli individui e delle collettività”: laddove il revival islamico attuale si basa su “semplici formulazioni storiche dell’Islam” finalizzate a “distinguere” i musulmani dal resto del mondo e, in particolare, dall’Occidente.
Forse, inconsapevolmente, una giurisprudenza del genere porta acqua appunto a questo mulino, il mulino degli islamisti radicali, accreditandone la visione archeologica e storicamente falsa dell’Islam.
La riduzione delle culture a “totalità ermetiche, sigillate e internamente coerenti”, riguarda non soltanto l’Islam, ma anche le culture pubbliche, quelle che informano i profili fondamentali della forma di Stato e che, perciò, vengono irrigidite si da non poter che entrare in irrimediabile conflitto con le culture religiose e minoritarie.
La giurisprudenza della Corte europea ne da prova quando tratta della laicità, e in particolare, della neutralità dell’insegnamento pubblico assicurato dallo Stato, con riferimento al divieto a docenti o studentesse di indossare il velo islamico e non un “vestiario moderno”.
Essa è costante nell’escludere, in questi casi, una violazione dell’art. 9 CEDU, riconoscendo che il divieto è necessario in una società democratica al fine di non discriminare le studentesse che non portano il velo, dato il potenziale espressivo di un simbolo difficilmente conciliabile con il principio di eguaglianza di genere.
Il concetto di laicità che traspare da questa giurisprudenza è quello rigido, comunemente dello alla francese.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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