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I luoghi di culto nell'educazione islamica


Dopo la strage delle Torri Gemelle le politiche separatiste e differenzialiste hanno trovato nell’attacco alle moschee e ai centri islamici il proprio centro di convergenza e di durata.
Emblematica una proposta di legge, decaduta con la fine della legislatura, sui limiti alla “realizzazione di nuovi edifici dedicati ai culti ammessi”.
La politica di “tolleranza zero” verso gli edifici di culto deriva dal fatto che secondo questa proposta essi “hanno a volte poco a che fare con le funzioni religiose così come concepite dalla cultura occidentale”: a parte il sospetto che si tratti di luoghi militari, vengono presi di mira perché ospitano scuole craniche e formano le coscienze secondo la sharī’a.
Naturalmente, è vero che le moschee non sono solo luoghi di culto ma anche (non diversamente, tuttavia, da parrocchie e sinagoghe) di insegnamento o di indottrinamento, di assistenza sociale, di preservazione dell’identità islamica in territorio straniero.
Ed è chiaro che in esse sono presenti anche gruppi islamisti interessati ad impedire l’omologazione dai musulmani ai valori occidentali.
Ma ciò non giustifica la riesumazione della categoria dei “culti ammessi”, sotterrata dalla Costituzione, che si affiancherebbe a quella delle confessioni attualmente con intesa e all’altra delle confessioni senza intesa ma già riconosciute.
Il ritorno al 1929 di manifesta in tutta la sua ampiezza con la previsione di un “decreto legislativo recante i requisiti generali degli statuti”, cui le confessioni non potrebbero che conformarsi per avere almeno la possibilità di negoziare attraverso un’intesa con lo Stato la realizzazione dei propri edifici di culto.
In caso contrario, infatti, la materia sarebbe interamente sottoposta al potere autorizzatorio delle Regioni.
Il procedimento di autorizzazione di queste ultime è una sorta di corsa a ostacoli.
È previsto che ogni Regione si doti di un piano di insediamento dei nuovi edifici destinati alla categoria dei culti ammessi in proporzione al numero di immigrati legalmente residenti, aggiornabile ogni 5 anni ma in misura non superiore al 5 %.
È previsto, altresì, un numero minimo di aderenti alla confessione per la presentazione della domanda di autorizzazione.
Esso poi rileva al fine di determinare le dimensioni dell’edificio da autorizzare: con la conseguenza che, in caso di bisogno di un edificio più ampio per l’aumento del numero di aderenti, occorrerebbe ripetere il procedimento di autorizzazione.
Sono previsti poi una serie di oneri a carico della confessione richiedente: l’indicazione degli eventuali finanziatori, la distanza superiore al chilometro dell’edificio da quelli di “analoga confessione”, la coerenza dello stesso con le “tipologie edilizie tipiche del territorio interessato”.
Si tratta comunque di condizioni necessarie ma non sufficienti per ottenere l’autorizzazione regionale: infatti è richiesta anche la “previa approvazione” della “popolazione del comune interessato espressa mediante referendum”.
Evidente è la finalità disinfettante di questa disciplina di controllo dell’apertura di moschee ma anche, indirettamente ma esplicitamente, dell’educazione islamica.
Questo progetto è rimasto fermo al palo sotto il profilo dell’esame legislativo, ma sotto quello della politica costituzionale è un segnale estremamente pericoloso della possibile involuzione, motivata all’occorrenza dall’azione di contrasto al fondamentalismo islamico, verso un sistema di controllo governativo dell’apertura di edifici di culto, che fu la prima norma della legislazione fascista a cadere sotto la mannaia della Corte Costituzionale.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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