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La libertà di abbigliamento: identità religiosa, limite pubblico, doveri civili


Nella specie, non è dubitabile la liceità del motivo del particolare abbigliamento: vale a dire il rispetto della libertà di coscienza e cultural-religiosa, che soccombe solo nel bilanciamento con le superiori esigenze di riconoscimento della persona da parte dell’autorità pubblica.
E infatti nessuna azione penale risulta iniziata in proposito.
Il secondo limite intrinseco alla libertà di abbigliamento risiede nel processo volitivo del soggetto, che deve essere mantenuto libero da condizionamenti esterni, attuati per esempio dal gruppo familiare o comunitario.
Ricorrendone gli altri elementi, tali condotte potrebbero integrare gli estremi dei reati di violenza privata e, se sistematicamente vessatorie specie nell’ambito familiare, di maltrattamenti in famiglia.
Ma compito dello Stato non è solo la repressione di tali condotte illecite, bensì anche la prevenzione di esse attraverso azioni che incidano sulle cause che ne favoriscono lo svolgimento.
Quest’azione preventiva implica la possibilità di neutralizzare forzosamente gli spazi pubblici, limitando la libertà o vietando un determinato abbigliamento, come disposto in Turchia e in Francia.
Il problema in questi casi è di esaminare, in base alla norma di riconoscimento della laicità, fino a che punto politiche del genere siano necessarie in una società democratica e di conseguenza possano essere svolte senza diventare liberticide.
La questione, benché anche in tal caso si tratti di un simbolo religioso, è notevolmente diversa da quella dell’esposizione del crocifisso: questa è nella completa disponibilità della pubblica autorità, tenuta al rispetto del principio di laicità e, quindi, a non porre “come propri, principi religiosi o di altra ideologia”; l’uso del velo, invece, è nella disponibilità dei cittadini, è una loro manifestazione cultural-religiosa personale, semplicemente consentita dallo Stato, che perciò “non può essergli imputata come propria”.
Nel primo caso, lo spazio della mediazione si apre solo sul piano dell’esecuzione amministrativa di tale principio, potendosi ammettere, come detto, che in mancanza di opposizioni si possano ornare i muri con l’esposizione di uno o più simboli religiosi.
Nel caso dell’abbigliamento, invece, si pone un problema di bilanciamento tra la libertà dei cittadini ed il principio di non identificazione dei pubblici poteri o, nel caso di dipendenti privati, con la libertà di iniziativa economica.
La soluzione potrebbe sembrare nettamente a favore della libertà di abbigliamento, siccome presidiata dal diritto di identità e dal diritto di libertà di religione.
In realtà, nonostante le due oasi mediterranee dell’Italia e della Spagna, non sembra che il problema possa trovare generale soluzione nella prevalenza della libertà di abbigliamento, che infatti viene esclusa nel bilanciamento con la libertà di impresa nel settore privato.
Va comunque rilevato che la decisione si basa sulla mancanza di prova di un concreto pericolo di danno di immagine ed economico all’azienda determinato dall’abbigliamento della lavoratrice.
Se perfino nel settore privato la libertà di abbigliamento della dipendente non prevale senz’altro, ma va bilanciata, a più forte ragione ciò vale nel settore pubblico, dove non la libertà di iniziativa economica è il parametro di riferimento, bensì il principio supremo di laicità.
E dunque non può sorprendere che la prevalenza di questo principio è attualmente avallata in diversi Paesi, dalla Francia al Belgio alla Svizzera.

Tratto da EGUAGLIANZA E DIVERSITÀ CULTURALI E RELIGIOSE di Stefano Civitelli
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