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La definizione del tipo romano

Circa un secolo prima della caduta dell’Impero d’Occidente, lo scrittore di cose militari Vegezio, propose una sintetica antropologia del tipo romano, costruita attraverso una sequenza di semplici polarità. I romani erano meno prolifici dei Galli, più bassi dei Germani, meno forti degli Spagnoli, meno ricchi e meno astuti degli Africani, inferiori ai Greci nelle tecniche e nella ragione applicata alle cose umane.
Questo tipo di uomo definito in negativo aveva però una superiorità decisiva, una vocazione al domino, assicurata da tre fattori: l’esercizio delle armi, la disciplina degli accampamenti, il modo di impiegare l’esercito. Questa raffinata scienza bellica intrisa di etica era diventata fondamento dell’audacia, certezza del successo e insieme carattere peculiare del tipo romano.
A Cicerone questa spiegazione non era bastata, il fattore militare era insufficiente a spiegare il dominio militare sul mondo: non abbiamo vinto gli Spagnoli col nostro numero, né i Galli con la forza, né i Cartaginesi con l’astuzia, né i Greci con le tecniche, ma con la scrupolosa osservanza della pietas, della religio e di quella sapienza teologica che è peculiare dei Romani. Anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, questa associazione tra carattere guerriero e Romanità, avrà una solida fortuna, radicata non solo nelle prospettive puramente storiche, ma anche nella consapevolezza di chi si riteneva giustamente erede di quella antica virtù.
Accanto a questa immagine si impone lo scenario delle arene intrise di polvere e di sangue, i gladiatori scannati, i cristiani in pasto alle belve, lo spettro della croce…in altre parole l’immagine del Romano crudele. Quella definizione della civiltà della testa tagliata che è stata escogitata per i Celti spetterebbe con egual diritto anche ai Romani, per i quali il tagliar teste non rientrava in un’attitudine definibile come crudelitas: l’atto del taglio della testa era, oltre che un ovvio mezzo di intimidazione, un segno di potenza, una manifestazione di efficienza e bravura. I romani erano un popolo fine, e la crudelitas la vedevano piuttosto in alcuni comportamenti che talvolta si associavano a quell’atto: per esempio gioire scompostamente davanti al capo mozzato di un avversario troppo a lungo temuto, o diffondersi in commenti di attivo gusto su questo o quel particolare fisionomico. Sono questi i comportamenti che trasformano in crudelitas quell’ammirevole esternamento di potenza che si era manifestato nella decapitazione del nemico. Qualunque sia il sostantivo che accostiamo all’aggettivo romano (mondo romano, uomo romano…), il risultato è sempre lo stesso: costruiamo una categoria astratta e totalizzante e quindi parziale. In un tempo lungo 1300 anni che rappresentano la durata minima della storia romana, come può parlarsi di un uomo romano sostanzialmente uguale a se stesso dalla città dei Tarquinii a quella di Augusto o di Teodosio il Grande? Quanto allo spazio, le dislocazioni geografiche di un impero ben presto supernazionale compongono un viluppo di culture e di tipi umani, mentre il carattere unificante della cultura greco-romana e le valenze cangianti dell’humanitas di ceti dirigenti si impiantano a macchia di leopardo, seguendo l’ordito punteggiato dell’urbanesimo e delle aree direttamente controllate dalle città.
Per avvicinarci al tipo romano dobbiamo avvicinarci alla città, ma sarebbe comunque un errore assimilare tout court urbanitas e romanitas. Le autorappresentazioni del tipo romano lasciateci dalla cultura letteraria antica sono quanto mai mutevoli e raggiugono un certo grado di compattezza e omogeneità solo al livello estremamente ristretto dell’humanitas, che limita di fatto a poche migliaia di individui l’appartenenza al tipo romano puro. Il particolare rapporto dei Romani con la schiavitù apparve tale anche agli stranieri; i Romani ad esempio giungevano a concedere addirittura la cittadinanza agli schiavi e di ciò i Greci ne restarono impressionati e ammirati e l’esempio romano veniva preso a modello.
La polis romana fu molto più aperta della polis greca, e in questa diversità risiederebbe il successo dell’una e il fallimento dell’altra. Ci sono alcuni dati di fatto: in Grecia l’assemblea dei cittadini poteva creare nuovi cittadini. Si trattava di un procedimento complesso e difficile, che coinvolgeva un diritto sovrano della città, per il quale non erano ammesse deleghe né a magistrati, né a privati. Completamente diverso lo scenario romano: qui il magistrato agiva al di fuori del controllo istituzionale del popolo. Ma ancor più impressionante nel caso romano era l’iniziativa del singolo dominus: la sua volontà, accompagnata da un rituale semplice e dall’approvazione formale del magistrato, era sufficiente a liberare uno schiavo e a farne un cittadino. In altre parole, il cittadino creava il cittadino.

Tratto da L'UOMO NELLA SOCIETÀ ROMANA di Alessia Muliere
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