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Le complesse relazioni tra sacerdoti e magistrati a Roma


I romani concepiscono la città su un piano subordinato, ogni comunità civilizzata, come il luogo dove coabitano gli dei e gli uomini e la religione è l’insieme delle relazioni che la città intrattiene e deve intrattenere con i suoi dei: tale relazioni materiali sono ciò che viene chiamato culto degli dei. Con questa espressione i romani si riferivano agli omaggi che erano dovuti a questi “concittadini” molto potenti in ragione della loro supremazia e i cambio dei loro benefici, nonché al dialogo regolare con loro. L’opinione dei sacerdoti costituiva un elemento rilevante del gioco politico; e tuttavia un tale potere sfuggiva al dominio dei leader del momento a causa del carattere vitalizio dei sacerdoti e del loro particolare modo di reclutamento. Ecco perché tutte le forze politiche hanno tentato di controllare i sacerdoti attraverso leggi che ne regolamentavano il reclutamento. Questa evoluzione ebbe termine nel corso dell’ultimo decennio prima dell’era cristiana, quando Augusto fu progressivamente cooptato da tutti i collegi sacerdotali. Il privilegio fu trasmesso ai suoi successori. Ormai l’imperatore partecipava dall’interno alle decisioni dei collegi sacerdotali e riuniva nelle sue mani la pienezza dei poteri che era attribuita dai romani ai re delle origini. Reclutati in modo totalmente diverso da quello dei magistrati i sacerdoti avevano competenze proprie molto ampie, dalla celebrazione dei riti alla gestione del diritto scaro. Ma anch’essi avevano bisogno del concorso dei magistrati. In effetti proprio come il senato per intervenire nella vita pubblica i sacerdoti dovevano essere prima consultati a meno che lo ius non conferisse loro un mandato permanente per compiere questo o quell’atto; e infatti essi fissavano le date e si incaricavano tutte le feste arcaiche del calendario senza essere investiti da nessuno se non dal presidente del loro rispettivo collegio. Sul rapporto tra sacerdoti e magistrati è pertinente porre la distinzione sul piano dell’azione pubblica. Sul piano religioso il magistrato disponeva di un potere più ampio del sacerdote (o del sento) perché poteva agire col popolo e con gli dei, mentre i sacerdoti non disponevano né dell’imperium, né della potestas. Essere sacerdote a Roma significa agire con gli dei e sapere come ci si comporta con essi; le competenze sacerdotali dei magistrati consistevano nel poter agire in un certo numero di circostanze con gli dei e di potere informarsi e deliberare sul valore sacro di questi atti. Le complesse relazioni tra sacerdoti e magistrati esprimevano anche uno dei maggiori principi della concezione religiosa degli antichi: quello secondo cui la città era il risultato di un’alleanza fra gli uomini e gli dei sotto il governo dei magistrati. Le attività rituali di coloro che detenevano un potere sacerdotale possono essere raggruppate sotto due voci principali: la celebrazione del culto e la rappresentazione delle funzioni divine.

Tratto da L'UOMO NELLA SOCIETÀ ROMANA di Alessia Muliere
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