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La condizione del povero nell'impero romano

La condizione del povero nell'impero romano

Affidandosi ai principi più alti della saggezza politica, l’imperatore non trascurava mai gli attori e gli altri protagonisti del circo e dell’anfiteatro. Egli sapeva bene che i romani sono conquistati da due cose soprattutto, l distribuzione di grano e i pubblici spettacoli. Il governo di un imperatore è governato sul metro dei divertimenti non meno che delle cose serie. Trascurare gli affari importanti può provocare un danno più grande, ma trascurare i divertimenti provoca maggiore malcontento. Le elargizione dei voti gratifica solo i plebei iscritti nelle liste frumentarie; ma degli spettacoli sono gratificati tutti. Un’intera fascia di poveri di Roma che frequentava gli spettacoli non ricevette mai un pubblica elargizione di grano o denaro. Però i giochi del circo massimo ad es., potevano essere visti da non più di 250.000 persone, e dunque una parte considerevole di veri poveri non assisteva nemmeno ad alcune delle spettacolari blandizie. Nel corso della storia i ricchi hanno creato un’immagine stereotipata della povertà: i poveri sono una parte dell’ordine naturale e stabilito del mondo e siano da biasimare per la loro stessa condizione (una congiuntura). I romani non mancarono mai di moraleggiare sulle virtù romantiche del duro lavoro, solitamente quello dei campi e sulle colpe del povero che non ne era capace.
Gli studi sulla povertà
Il termine latino iners, riferito all’uomo senza lavoro, implica pigrizia. Un uomo povero era automaticamente considerato nei tribunali un testimone sospetto, poiché la sua povertà può far pensare che cerchi un tornaconto. Una delle fonti più significative è lo storico e uomo politico della tarda repubblica Sallustio, che scrisse un piccolo trattato morale sulla cospirazione di Catilina del 63 a.C. La sua opera rivela una paura e un odio patologico nei confronti dei poveri. Tutti i moderni studi sulla povertà convergono assiomaticamente sul fatto che essa è una condizione più facile da descriversi che da definirsi. Tutti i tentativi di classificarla sono arbitrari, relativi e fondati su una notevole scala di privazioni. Dobbiamo anzitutto tener presente che la povertà di massa nelle società antiche come in quelle preindustriali moderne, era ed è u fenomeno prevalentemente rurale, raramente documentato. Se consideriamo la distribuzione della ricchezza tra ricchi e poveri prima di tutto sotto il profilo delle categorie sociali e giuridiche, la questione risulta complicata dalla schiavitù. Una stima del numero degli schiavi abitanti in città varia tra un terzo della popolazione e un decimo circa. Alcuni di questi schiavi, vivendo nelle case dei loro padroni, potevano considerarsi abbastanza ben alloggiati e nutriti rispetto agli standard di vita degli indigenti. Nella stessa posizione si trovavano altri schiavi che lavoravano come piccoli artigiani in modo indipendente di loro padroni e con la loro propria peculium. Non c’è quindi ragione per ritenere che tutti gli schiavi fossero ugualmente poveri; per altro verso gli schiavi esprimevano una solidarietà sociale nei confronti dei libri poveri. La seconda categoria da considerare è quella dei liberti, ex-schiavi a cui era stata concessa la libertà. Le testimonianze epigrafiche e funerarie non lasciano dubbi: la principale categoria della plebe romana era identificata con i liberti. Essi comunque, come gli schiavi non costituivano una distinta classe di poveri. Alcuni erano straricchi e orgogliosi del loro mestiere; altri no. La terza categoria è rappresentata dagli stranieri, che erano indubbiamente un gruppo molto vasto; secondo un topos della retorica politica romana, gli immigrati stranieri sarebbero stati la causa principale dell’instabilità tra i poveri. Anche per loro non c’è ragione di credere che formassero una categoria depressa: certo no godevano delle distribuzioni pubbliche né di grano né di denaro di cui usufruiva la plebe registrata a Roma. Ma è anche vero che molti stranieri risiedevano a Roma temporaneamente e spesso appartenevano ad associazioni religiose e commerciali che avevano beni finanziari all’estero. Anch’essi dunque erano variamente distribuiti tra la ricchezza e la povertà. I più poveri erano i miserabili, coloro cioè che non avevano alcun mezzo di sostentamento; qualsiasi povertà è relativa.

Tratto da L'UOMO NELLA SOCIETÀ ROMANA di Alessia Muliere
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