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Il secondo periodo Ming

A partire dalla seconda metà del XV secolo (1450), arrivarono a rendersi palesi alcuni grandi cambiamenti già in movimento da diverso tempo. Le grandi riforme dell’agricoltura varate da Zhu Yuanzhang e mantenute dai suoi successori (il figlio Young in particolare), avevano infatti fin da subito aumentato notevolmente la produzione agricola nei territori dell’Impero ed innescato uno spettacolare aumento demografico. La maggior quantità di prodotto e ricchezza si era presto tradotta in un beneficio per artigiani, commercianti e mercanti, e le conquiste territoriali realizzate da Young avevano ulteriormente contribuito allo sviluppo del settore commerciale. L’arrivo degli europei infine, durante la prima metà del XVI secolo, aveva portato in Cina nuove colture provenienti sia dall’Europa che dalle Americhe (patate, mais, arachidi). Così a partire dal XVI secolo era cominciato un processo di trasferimento degli investimenti dalla proprietà fondiaria alle più lucrose attività industriali e commerciali. Il sistema economico era insomma cambiato in maniera radicale e con esso anche la composizione sociale: le città si erano ulteriormente ingrandite accumulando un crescente strato di proletari (ex contadini attirati dalle molte offerte di lavoro), piccoli borghesi dell’artigianato e del commercio, grandi e potenti borghesi dell’industria e del commercio internazionale. Anche le modifiche introdotte da Zhu Yuanzhang e Young al sistema degli esami (modifiche volte a favorire la mobilità sociale), fondendosi con l’ampliamento della macchina statale (che dovette allargarsi per far fronte all’aumento della popolazione, delle città e dei commerci), avevano determinato mutamenti sociali: in particolare andò costituendosi una nuova gentry, non più legata alla proprietà terriera, come in epoca Song e Yuan, ma al solo lavoro nella gigantesca burocrazia statale. 
Tutte queste ‘rivoluzioni’ economiche e sociali, determinarono un mondo economico profondamente differente da quello sul quale Zhu Yuanzhang aveva basato il sistema fiscale e quello militare. I registri della popolazione in particolare, apparivano ormai del tutto inutili, poiché non era stato possibile aggiornare il grande complesso di cambiamenti avvenuto: spostamenti di popolazione da una regione all’altra, dalla campagna alla città, sviluppo di nuove professioni, aumento delle ricchezza generata da altre… Il risultato fu una profonda confusione che si tradusse in malfunzionamento del sistema fiscale e dell’arruolamento militare, confusione risolvibile solo attraverso il varo di una radicale riforma il prima possibile. Realizzatore di questa inderogabile esigenza fu il grande statista Zhang Juzheng (1525-82), al quale si deve la riforma dell’unica forza che semplificò i metodi di riscossione delle varie imposte fiscali.
Altro grave problema del secondo periodo della dinastia Ming fu l’accrescersi a corte del potere degli eunuchi. Si trattava, come si è visto più volte, di un fenomeno ricorrente nella storia delle ultime grandi dinastie regnanti, ma dal 1506 al 1620 esso assunse proporzioni molto grandi, rappresentando la maggior ragione di decadenza della dinastia Ming. Durante il regno del giovane imperatore Zhengde (1506-21) l’eunuco Liu Jin, riuscì a monopolizzare il potere effettivo e ad accumulare, prima di essere giustiziato, ricchezze per un valore superiore al bilancio annuale dello stato. Sotto l’imperatore Wanli (1573-1620), che trascurò gli affari di stato per darsi alla vita viziosa, l’eunuco Wei Zhongxian conquistò il potere e, alla morte di Wanli riuscì a plagiare il giovane erede al trono Tianqi, il quale trascorse tutta la vita a lavorare al suo tavolo di falegnameria lasciando che Wei Zhongxian amministrasse l’Impero con una crudeltà che rimase tristemente nota. 
Nel corso della dinastia, singoli funzionari si levarono in più occasioni contro gli eunuchi corrotti, spesso al prezzo della loro stessa vita. Nel 1604 tuttavia, il fronte avverso agli eunuchi riuscì ad organizzarsi in un partito, costruito prevalentemente da membri della nuova gentry legata alla burocrazia; ma Wei Zhongxian riuscì ad imporne la chiusura e il partito riemerse solo dopo la sua morte, durante il regno dell’ultimo imperatore Ming, Chongzhen (1628-44). Oltre che dalla lotta fra eunuchi e gentry, dai cambiamenti socioeconomici e dai problemi fiscali (che l’intervento riformatore di Zhang Juzheng era riuscito ad alleviare ma non a risolvere), gli ultimi decenni della dinastia Ming furono complicati anche da una serie di rivolte popolari. 
Meno stringenti furono invece i problemi con i barbari presso i confini settentrionali. Il più grave scontro si verificò introno al 1550, quando il rifiuto imperiale di togliere le restrizioni al commercio fra cinesi e barbari, provocò la reazione di questi ultimi che, guidati dal Khan Altan, invasero il territorio cinese accerchiando la stessa Pechino. Eccetto una breve tregua nel 1551, le ostilità proseguirono senza interruzioni fino al 1570, quando le autorità imperiali accondiscesero ad eliminare le barriere commerciali in cambio della fine delle scorrerie mongole nei territori imperiali. Fra l’altro fu proprio in questo periodo, e proprio sotto l’impulso di Altan, che le tribù mongole si convertirono al buddismo lamaista; questo fatto avrebbe avuto grande portata in futuro poiché avrebbe legato strettamente la chiesa tibetana alle tribù mongole, tanto che i futuri rapporti fra Impero cinese e mongoli sarebbero stati condotti attraverso il tramite della chiesa tibetana e quelli fra Tibet e Impero attraverso l’intermediazione dei mongoli. 
Ben più problematica da risolvere per le autorità Ming, fu la riconquista della Corea, che fu invasa dalle truppe dello shogun giapponese Hideyoshi alla fine del XVI secolo. Le campagne di liberazione del più fedele stato tributario della dinastia proseguirono con grande impiego di uomini e risorse dal 1595 al 1598, causando un profondo buco nelle finanze statali. La situazione di debolezza è confermata anche dal fatto che una rivolta popolare scoppiata nella centrale provincia del Guizhou, proseguì per ben sei anni (1594-1600), prima che le truppe imperiali riuscissero ad averne ragione. I rapporti di amicizia fra Giappone e Cina furono ristabiliti nel 1603, con la morte di Hideyoshi e l’ascesa dei Tokugawa. 
L’interruzione dei rapporti con il Giappone aveva del resto già causato grandi problemi ai cinesi: nel 1530 due ambascerie giapponesi erano giunte in Cina, ed ognuna delle due chiedeva di essere riconosciuta come vera (ed unica) rappresentante del governo nipponico. Quando infine le autorità cinesi operarono la loro scelta, l’ambasceria esclusa si diede al saccheggio del porto di Ningbo. Lo spiacevole episodio determinò la chiusura dei rapporti di scambio ufficiale con il Giappone. Una  decisione questa, che si rivelò catastrofica perché il commercio era ormai diventato uno dei motori dell’economia del Celeste impero e pensare di riuscire a fermarlo era assurdo oltre che controproducente. Infatti non solo il commercio con Giappone continuò a prosperare, ma si ebbe anche una recrudescenza del fenomeno della pirateria. Le severe restrizioni al commercio (imposte non solo verso il Giappone ma in maniera generalizzata dalla autorità) furono infatti fra le cause principali del rafforzarsi della pirateria nel Mar Cinese Orientale e Meridionale, poiché favorirono il contrabbando ed impedirono il costituirsi di compagnie commerciali legali come invece avveniva in Occidente. A nulla valsero le campagne della marina militare contro i pirati nel 1494-50 e nel 1528-88: il commercio, anche se illegale o condotto a mezzo dei pirati, era ormai diventato una necessità per l’intera economia cinese ed in particolare per la costa delle province centrali e meridionali. 

Tratto da STORIA DELLA CINA di Lorenzo Possamai
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