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Responsabilità limitata: investitori vs. gestori


Le società di capitali sono basate sul principio maggioritario: le decisioni dei soci sono assunte a maggioranza, talvolta particolarmente qualificata, calcolata secondo le quote di partecipazione al capitale (c.d. principio plutocratico).
Da ciò la prima classica contrapposizione: quella tra maggioranza e minoranza.
Tutte le società sono dotate di una leadership stabile: talvolta da parte di un socio che detiene la maggioranza del capitale, altre volte mediante alleanze tra soci che consentono loro di esercitare stabilmente il controllo dell’impresa sociale.
La stabilità è un bene in quanto consente una gestione continua, ordinata, basata su linee strategiche coerenti; diviene un male se alimenta la conservazione di rendite di posizione.
L’esercizio del controllo sull’impresa sociale non richiede necessariamente il possesso della partecipazione maggioritaria al capitale.
I soci di minoranza, infatti, hanno scarsi stimoli a esercitare i diritti amministrativi di loro spettanza, consci a priori della normale irrilevanza delle loro opinioni e dei voti da loro espressi.
Ne consegue che la c.d. maggioranza, cioè quella che tramite l’effettiva espressione dei voti controlla l’impresa sociale mediante la nomina degli amministratori nell’assemblea ordinaria, spesso non corrisponde a chi ha effettuato la maggioranza dell’investimento in capitale di rischio della società (c.d. “minoranza” di controllo).
La distinzione vera, quindi, non corre tra maggioranza e minoranza ontologicamente intese, ma tra i soci che hanno il controllo dell’impresa sociale e quelli che, essendone esclusi, si limitano a finanziarla con capitale di rischio.
Gli interessi di queste due classi di soci spesso nella realtà tendono a divergere.
In effetti i soci estranei al controllo possono trarre un profitto dalla loro partecipazione solo tramite la partecipazione agli utili ed, eventualmente, il corrispettivo conseguente alla cessione della loro quota.
La percezione di utili è, peraltro, affidata a una serie di eventi che dipendono dal gruppo di comando: anzitutto una gestione profittevole dell’impresa sociale, in secondo luogo la decisione di non usare gli utili come autofinanziamento della società, ma di ripartirli fra i soci.
Il gruppo di comando ha un interesse meno forte alla massimizzazione degli utili e alla loro ripartizione.
In primo luogo perché i soci di comando, in quanto controllori dell’impresa sociale, possono appropriarsi dei c.d. benefici privati del controllo senza doverli spartire con gli altri soci.
Nelle c.d. public companies viene meno tale contrapposizione di interessi all’interno dei soci, sostituita da un’altra: quella tra soci complessivamente intesi e amministratori, in quanto espressione del vertice della struttura manageriale della società.
Si parla di public company quando il capitale sociale è altamente frazionato sì che nessun socio, da solo o tramite patti di sindacato, può esercitare il controllo dell’impresa sociale.
In questo caso la gestione dell’impresa non è in mano ai soci di maggioranza, ma ad amministratori che, proprio per la dispersione della compagine sociale, hanno un elevato margine di manovra: nessun socio, infatti, ha incentivi sufficienti per sottoporli a un monitoraggio continuo e il loro coordinamento è tutt’altro che facile (c.d. problema di azione collettiva).
La gestione negligente degli amministratori ovvero l’estrazione eccessiva di benefici privati può rappresentare la base di convenienza economica per chi intenda lanciare un’offesa pubblica d’acquisto, primo esito della quale è il cambio degli amministratori.
Altri strumenti possono essere volti a ridurre il c.d. disallineamento di interessi tra amministratori e soci: per esempio, le stock optino che, prevedendo una remunerazione basata sull’assegnazione agli amministratori di azioni della società, tendono ad allineare il loro interesse con quello dei soci.

Tratto da DIRITTO COMMERCIALE di Stefano Civitelli
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