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Le 3 teorie Economia Politica Internazionale

MERCANTILISMO
Rapporto tra politica ed economia - Primato della politica
Attori principali - Stati
Natura delle relazioni economiche - Conflittuali (gioco a somma zero)
Finalità economiche - Potere dello stato
Ruolo degli attori economici (multinazionali) - Indeterminato e dipendente dallo stato

LIBERALISMO ECONOMICO
Rapporto tra politica ed economia - Autonomia dell’economia
Attori principali - Individui
Natura delle relazioni economiche - Cooperative (gioco a somma positiva)
Finalità economiche - Massimizzazione del benessere individuale
Ruolo degli attori economici (multinazionali) - Indipendente e positivo

MARXISMO
Rapporto tra politica ed economia - Primato dell’economia
Attori principali - Classi
Natura delle relazioni economiche - Conflittuali
Finalità economiche - Interessi di classe
Ruolo degli attori economici (multinazionali) - Dominante e sfruttante

Il più importante dei dibattiti scaturiti dal mercantilismo riguarda la necessità dell’esistenza di uno stato forte per garantire il buon funzionamento dell’economia internazionale liberale una potenza economica egemone è necessaria alla creazione e al pieno sviluppo su scala mondiale di un’economia di mercato liberale
È questa la teoria della stabilità egemonica
Tale teoria, proposta per la prima volta da Charles Kindleberger e sviluppata da Robert Gilpin, non è esclusivamente mercantilista, dal momento che contiene anche elementi liberali.
In base a questa teoria, in assenza di una potenza liberale dominante, un’economia mondiale aperta risulterebbe molto più difficile da costruire, a fronte del costante rischio di uno scadimento delle relazioni economiche in una concorrenza di stampo nazionalistico, egoistico e protezionistico, ispirata al principio beggar your neighbour.
Tra le risorse necessarie affinché un paese egemone possa esplicare il proprio ruolo vanno annoverati:
la capacità di provvedere militarmente all’altrui bisogno di sicurezza
secondo Keohane è necessario il controllo su 4 tipi di risorse economiche mondiali:
1. materie prime
2. capitali
3. mercati
4. vantaggio competitivo nella produzione di merci di valore molto elevato

Con il relativo declino, negli anni ’70, degli USA, non c’era più una potenza chiaramente dominante che si preoccupasse di sostenere l’economia liberale su scala mondiale.
Molti osservatori, però, negano che la forza economica americana sia sostanzialmente diminuita, per 2 motivi:
1. gli USA sono tuttora molto forti in termini di risorse di potere fungibili di tipo tradizionale: potenza militare, economia, tecnologia, territorio
2. Susan Strange sostiene che è fuorviante focalizzare l’attenzione sull’economia territoriale entro i confini degli USA; ciò che davvero conta è la quota dell’output mondiale di prodotti primari, di manufatti e di servizi alla cui produzione sovrintendono dirigenti di società USA
3. gli USA sono particolarmente forti nei settori più avanzati
4. gli USA rimangono forti nel campo delle risorse di potere immateriali → “cultura popolare” (cinema, televisione, Internet)
Le tendenze alla crisi che si riscontrano nell’economia liberale mondiale sono dovute al fatto che gli USA hanno preso numerose decisioni manageriali di dubbia saggezza che spiegano ampiamente il disordine finanziario e monetario il problema è la capacità/volontà degli USA di assumersi la responsabilità di sostenere l’economia liberale su scala mondiale.


Robert Cox conviene che il declino economico degli USA crea problemi per la stabilità dell’attuale ordine mondiale, ma sottolinea anche la dimensione ideologica dell’egemonia: un ordine egemonico stabile si basa su un insieme condiviso di valori e conoscenze derivante dai modi di fare e di pensare degli strati sociali dominanti dello stato dominante.

Il dibattito più importante innescato dal marxismo è quello su sviluppo e sottosviluppo nel Terzo Mondo. Prima degli anni ’50 quasi nessuno si poneva interrogativi sui problemi dello sviluppo del Terzo Mondo, e quando qualcuno se ne poneva, lo faceva in termini di sviluppo coloniale.
Il processo di decolonizzazione, iniziato negli anni ’50, segnò l’avvio della ricerca sullo sviluppo su una scale davvero internazionale.
Furono i liberali economici ad inaugurare, in Occidente, la ricerca sullo sviluppo, proponendo vari contributi accomunati sotto la denominazione di teoria della modernizzazione: l’idea di base era che i paesi del Terzo Mondo avrebbero seguito la stessa strada già percorsa dai paesi sviluppati dell’Occidente = da una tradizionale società agricola a una moderna società industriale caratterizzata da consumi di massa.
Gli sforzi dei teorici della modernizzazione sono rivolti all’identificazione dell’ampia gamma dei fattori che impediscono la modernizzazione e di quelli che invece la promuovono → essi sottolineano l’importanza di un’economia aperta, libera da interferenze politiche, capace di generare l’ingente volume di investimenti necessario per alimentare il processo di crescita e di sviluppo economico. W. W. Rostow rimarcava che il decollo (= la fase di spinta cruciale nel passaggio dal tradizionale al moderno) è caratterizzato da un sensibile aumento degli investimenti nel settore moderno.
Un altro elemento è il rapporto dei paesi del Terzo Mondo con il mercato mondiale: si ritiene che stretti rapporti di mercato con i paesi sviluppati si ripercuotano positivamente, in termini di sviluppo, sulle economie del Terzo Mondo.
Durante gli anni’60-’70, l’interpretazione liberale dei meccanismi dello sviluppo fu oggetto di crescenti critiche, in parte motivate dall’assenza di un effettivo progresso in molti paesi del Terzo Mondo.
La critica più radicale ai liberali economici fu quella mossa dagli esponenti della teoria marxista del sottosviluppo, nota come teoria della dipendenza: il sottosviluppo non è affatto una condizione che in passato caratterizzava tutti i paesi, ma è piuttosto un processo che ha luogo entro il quadro del sistema capitalistico globale e che è stato imposto ai paesi del Terzo Mondo, in particolare all’America Latina, il cui sottosviluppo è dunque un sottoprodotto internazionale dello sviluppo dell’Occidente.
I teorici della dipendenza più radicali non esitano ad affermare che i paesi del Terzo Mondo dovrebbero tagliare, o almeno ridurre drasticamente, i legami con il mercato capitalistico mondiale e, facendo affidamento sulle loro forze, essi potrebbero avviare un processo di vero sviluppo economico, fuori dalla portata dello sfruttamento del mercato capitalistico mondiale.
Durante gli anni ’70 la teoria radicale della dipendenza fu messa seriamente in discussione, dal momento che numerosi paesi del Sud-est asiatico (Quattro Tigri) sperimentarono una rapida crescita economica accompagnata da una sostanziale integrazione nel mercato mondiale Wallerstein riconosce che alcuni paesi possono effettivamente progredire, ma nel contempo altri paesi regrediranno, cosicché la gerarchia dello scambio disuguale continuerà a caratterizzare l’economia-mondo capitalistica.

A proposito dello sviluppo del Terzo Mondo, il mercantilismo non ha saputo produrre enunciazioni chiare e sintetiche come quelle dei liberali economici o dei teorici della dipendenza. Ha però delineato una sorta di compromesso tra gli estremi dell’autonomia economica e della totale integrazione nell’economia capitalistica globale, suggerendo una via di mezzo.
Una seconda area cruciale dove i mercantilisti raccomandano una soluzione di compromesso è quella dei rapporti tra stato e mercato: nella teoria economica non ci sono argomenti irrefutabili a sostegno della tesi che l’intervento dello stato nell’economia sia per definizione controproducente. È però altrettanto vero che un eccessivo intervento dello stato può provocare fallimenti burocratici, dovuti ad alti costi ed insostenibili inefficienze.
Un altro esempio di via di mezzo mercantilista riguarda il ruolo delle multinazionali: i mercantilisti osservano che le multinazionali possono effettivamente favorire lo sviluppo del Terzo Mondo, ma tale potenzialità si traduce in realtà solo a determinate condizioni = la loro forza deve essere bilanciata dalla presenza di un’industria locale e di un governo ospite abbastanza forte da sovrintendere alla loro attività.

Da qualche anno, l’intero dibattito sullo sviluppo si è fatto più complesso, soprattutto per quanto riguarda la stessa definizione di sviluppo. Il pensiero liberale concepiva lo sviluppo in termini di acquisizione delle caratteristiche dei moderni paesi capitalistici un paese si sviluppa quando cresce e si modernizza sul piano economico.
In seguito, però, sono emerse alcune differenze: sviluppo non è solo crescita e soddisfazione dei bisogni materiali, ma è anche distribuzione, benessere, democrazia, partecipazione, libertà e autorealizzazione.
Il nucleo centrale del concetto, però, rimane inalterato: modernizzazione è crescita.

I liberali economici hanno innescato numerosi dibattiti sulle più varie questioni. In particolare, gli studiosi EPI si sono occupati in modo molto approfondito del fenomeno della globalizzazione = diffusione e intensificazione delle relazioni economiche, sociali e culturali su scala mondiale.
Un crescente livello di interconnessione economica tra 2 economie nazionali è un aspetto della globalizzazione economica, che si potrebbe definire interdipendenza intensificata.
In realtà, la vera globalizzazione economica è caratterizzata da uno spostamento qualitativo in direzione di un’economia mondiale basata non più su autonome economie nazionali, ma su un mercato di produzione, distribuzione e consumo consolidato a livello globale l’economia globale domina le numerose economie nazionali in essa contenute (integrazione profonda, promossa soprattutto dalle multinazionali, che sempre di più organizzano la produzione di beni e servizi su scala globale).
La globalizzazione è stimolata da numerosi fattori, il più importante dei quali è il progresso tecnologico, a sua volta stimolato dall’incessante concorrenza tra le imprese.
Questo processo ha conseguenze profonde per lo Stato: in un’economia globale unificata, attori economici piccoli e flessibili possono acquistare più potere via via che le economie nazionali diventano obsolete.

I mercantilisti non hanno elaborato una visione della globalizzazione che possa rivaleggiare con quella dei liberali economici. Esiste comunque una posizione che si potrebbe definire mercantilista: questi teorici non credono che esista un fenomeno chiamato “globalizzazione”. In ciò che sta avvenendo essi scorgono piuttosto un processo di intensificazione dell’interdipendenza tra le economie nazionali.
I mercantilisti contestano inoltre l’affermazione che le grandi compagnie hanno perso la propria identità nazionale. A loro giudizio, nonostante il notevole incremento del commercio mondiale e dei flussi di investimenti esteri, gli stati e le rispettive compagnie nazionali rimangono strettamente legati.
Infine, accusano i liberali di non tenere conto dell’accresciuta capacità degli stati nazione di rispondere alle sfide della globalizzazione economica: gli stessi sviluppi tecnologici che alimentano la globalizzazione hanno contribuito ad accrescere la forza dello stato sul terreno della regolamentazione e della sorveglianza.

Il giudizio neomarxista sulla globalizzazione economica differisce sia da quello dei liberali economici sia da quello dei mercantilisti. Secondo Robert Cox, parallelamente alla classica economia mondiale capitalistica si è sviluppata una nuova economia globale che tende a rimpiazzare la prima. In questo quadro, gli stati nazione hanno perso una quantità rilevante della loro capacità di esercitare un controllo sull’economia; d’altra parte, però, per poter continuare, il processo di globalizzazione economica necessita del quadro di riferimento politico fornito dal potere militare degli stati nazione → le macroregioni (guidate da USA in America, Giappone nell’Asia orientale e UE in Europa) sono le nuove cornici politico-economiche dell’accumulazione capitalistica il potere economico è sempre più concentrato nei principali paesi industrializzati, mentre le masse impoverite del Terzo Mondo non beneficiano della globalizzazione economica. È comunque importante comprendere che i paesi più poveri sono in difficoltà non a causa del surplus economico che gli viene sottratto da quelli ricchi, ma perché sono partecipanti marginalizzati del processo di globalizzazione economica = i loro mercati non sono attraenti agli occhi degli investitori stranieri perché il potere d’acquisto dei loro cittadini è basso, le istituzioni politiche sono inefficienti e corrotte e vie è dunque carenza di stabilità e ordine politico.

Insieme a questi cambiamenti, il processo di globalizzazione economica ha provocato la nascita di nuovi movimenti sociali in molte parti del mondo. La crescita di questi movimenti dimostra che la globalizzazione economica è molto di più di un insieme di anonime transazioni transfrontaliere, ma è anche lotta politica avente come obiettivi l’istituzione di controlli sui movimenti di capitali e un’equa ripartizione tra paesi e gruppi sociali dei benefici prodotti dalla globalizzazione.

Non è facile decidere che ha torto e che ha ragione nel dibattito sulla globalizzazione, perché ciascuna delle 3 posizioni teoriche può portare qualche prova empirica a sostegno delle sue tesi. Tuttavia, il liberalismo economico sembra essere l’approccio di maggior successo sul piano della prassi → le economie del cosiddetto libero mercato hanno ottenuto grandi risultati, al contrario di quelle gestite dallo stato.

Tratto da RELAZIONI INTERNAZIONALI di Elisa Bertacin
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