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Il senso del viaggio nella letteratura

In Ad Angelo Mai (1820), rassegna delle glorie italiane del passato di Giacomo Leopardi, due strofe interrompono la sequenza dei letterati, introducendo il viaggiatore Cristoforo Colombo. Assimilato all'Ulisse dantesco nel viaggio oltre le colonne, Colombo è il suo compimento.

Ma se il Colombo di Tasso aveva già liberato il viaggio oltre le colonne dalla colpa di Dante, Leopardi non si limita a ciò e constata che l'eroica capacità del viaggio ha prodotto un impicciolimento del mondo e ha distrutto la possibilità dei felici errori della poesia. Svaniti i sogni delle ignote lontananze terrestri, il segno di congiunzione tra viaggio e poesia diventa il nulla.

Il confronto fra l'apparenza infantile di vastità e l'effetto di impicciolimento causato dall'esperienza è allegoria del passaggio alla modernità. Ed è infatti con uguale confronto che si apre Le voyage di Charles Baudelaire. Le voyage è stata pubblicata nel 1959 con L'Albatros; e l'albatro è già allegoria del poeta e della sua diversità, del suo volare alto che lo rende però esule tra gli uomini.

Le strofe centrali del Voyage ricompongono i nobili racconti dei viaggiatori, sottolineando ancora l'evasione della parola, come mezzo per viaggiare senza vele. Ma il Voyage è il poema della fine di questa illusione. La favola dell'altrove, del diverso si scontra con la constatazione che la noia delle nostre prigioni si rispecchia nella noia dell'altrove. Si evidenzia cosÏ la frustrazione del viaggiatore.

E' questo il resoconto moderno del viaggio: la narrazione di Ulisse è divenuta un ripetitivo notiziario, asciutta cronaca di un mondo ovunque uguale: "Tel est du globe entier l'èternel bulletin". E' dunque un amaro sapere quel che si trae dal viaggio. Se il mondo è piccolo e rimanda sempre la stessa immagine, partire o restare, allora, è indifferente: l'unico viaggio che può ancora affascinare è quello sul Mare delle Tenebre; solo la Morte può allontanarci dalla noia.

Il viaggio subisce cosÏ una sottrazione di senso, e il naufragio è ora naufragio della parola. Dopo Baudelaire, Il Battello ebbro (1871) di Arthur Rimbaud invoca al naufragio come fine del viaggio, unico esito possibile dell'erranza sfrenata dell'io, del sapere illusorio tratto da essa, dell'eccesso di sentire nell'esperienza del tempo e dello spazio: "O que ma quille èclate! O que j'aille à la mer!"

Tratto da LETTERATURA E VIAGGIO di Domenico Valenza
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