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La classificazione delle lingue

La classificazione delle lingue 

La classificazione delle lingue è un problema che appassiona gli studiosi da oltre due secoli, così come le metodologie di indagine proposte sono sempre state molte e relative a svariate discipline. Esistono ipotesi di classificazione su base morfologica, attente cioè alle differenze strutturali delle varie parlate. Allo stesso tempo una prospettiva diacronica, che studia i vari strati di una lingua, tende a mettere in luce sovrapposizioni ed incroci avvenuti in periodi più o meno lunghi. 
Il criterio della classificazione morfologica si basa sulla forma che presentano le strutture delle singole lingue: non poggia dunque su considerazioni storiche, ma su aspetti più o meno evidenti che spesso possono dimostrarsi accidentali e transitori. Esso fu introdotto per la prima volta dai fratelli Schlegel agli inizi del diciannovesimo secolo e riproposto poi da altri glottologi come ad esempio Pott e Schleicher ,che ripartiva le lingue esistenti in isolanti, agglutinanti e flessive, classificazione ancor oggi ricordata in molti testi scolastici. A questo criterio di classificazione se ne aggiunse ben presto un altro, quello psicologico, che fu di gran lunga meno fortunato. La sua formulazione si deve a Humboldt che proponeva di dividere le lingue del globo in due grandi gruppi: quello delle lingue meno complete e quello delle lingue più complete. 
Un tentativo di classificazione di un certo interesse è ancor oggi quello genealogico. Nell’intenzione dei primi sostenitori, questo metodo avrebbe dovuto portare alla definizione di un antico e primario linguaggio comune, unico per tutta l’umanità ed anteriore alla mitica divisione biblica. Tralasciando gli aspetti più utopistici di tale iniziativa, una definizione evolutiva delle lingue presenta comunque interesse per la sua rispondenza all’attuale frazionamento territoriale in regioni culturali e linguistiche. Tramite questo modello di indagine si considerano affini o imparentate due lingue, quando l’una è storicamente la continuazione dell’altra. Tre secoli or sono l’inglese Jones intraprendeva lo studio del sanscrito, antica lingua dell’India, e ne ipotizzava una forte somiglianza lessicale e grammaticale con il greco antico ed il latino. Secondo lui le tre lingue sarebbero scaturite dalla stessa fonte che da tempo immemorabile non esisteva più. Un  secolo più tardi Jacob Grimm, filologo e noto narratore, sosteneva che i cambiamenti fonetici avrebbero potuto dimostrare le relazioni tra lingue in maniera scientifica. Dalle ipotesi dei due derivava la prima grande teoria linguistica sull’esistenza di una parlata indeuropea ancestrale, generatrice, tra le altre lingue antiche, del latino, del greco e del sanscrito. L’indoeuropeo avrebbe così dato origine ad un complesso linguistico che, secondo alcuni studiosi, raggruppa oggi oltre quattrocento idiomi, parlati da circa metà della popolazione mondiale e ripartiti in nove sottogruppi: albanese, armeno, baltico (lettone, lituano), celtico(bretone, cornico, gaelico, gallese, irlandese), ellenico, germanico (danese, fiammingo, inglese, islandese, norvegese, svedese, tedesco), indo iranico (comprende oltre trecento lingue tra cui: bengali, curdo, hindi, persiano, urdu), neolatino (castigliano, catalano, francese, italiano, ladino, occitano, portoghese, rumeno), slavo (bielorusso, bulgaro, ceco, macedone, polacco, russo, serbo-croato, slovacco, sloveno). I vari idiomi sono così raggruppati in famiglie in base al loro grado di affinità dovuto alla derivazione storica ed all’evoluzione comune. 
Quanto alla loro distribuzione territoriale due o più lingue simili tra loro sono solitamente contigue, ma i movimenti espansionistici e le migrazioni dei popoli talvolta  hanno portato ad ampliare molto la loro distanza geografica. Per misurare il grado di affinità o parentela tra due o più lingue si usa un criterio statistico. Si tiene conto delle parole più comuni dei vari idiomi e si raffronta il tasso di derivazione da una lingua originaria comune a tutte. Ad esempio l’italiano ha in comune con il latino classico oltre l’80% delle parole di base, percentuale che scende al 70% tra francese o rumeno e latino. Se tale indice di parentela supera l’80% si è di fronte a due parlate contigue o a varianti della stessa lingua. Tra l’80% ed il 30% le lingue si possono considerare appartenenti alla stessa famiglia. Al di sotto di tale quota, ma a fronte di significative somiglianze, le lingue vengono incluse in famiglie diverse ma entro lo stesso ceppo o gruppo di famiglie. Una suggestiva immagine figurata di tale complessa evoluzione è suggerita dallo stesso Schleicher che, nella seconda metà dell’Ottocento, sotto l’influenza delle teorie naturalistiche allora dominanti, paragonava le famiglie linguistiche del mondo ai rami frondosi di un grande albero. Da una base o tronco comune le lingue si sarebbero ramificate in dialetti che avrebbero subito ulteriori processi di differenziazione a causa dell’isolamento, fino a trasformarsi con il passare del tempo in lingue a se stanti. Al di là di tale teoria c’è però da evidenziare un rilevante fattore di complicazione, legato alla mobilità umana. Contestualmente alla differenziazione linguistica anche molti popoli si spostavano dai loro territori per raggiungerne altri, portandosi dietro le loro parlate. Tali circostanze mettevano così in contatto lingue isolate da molto tempo e provocavano il cosiddetto fenomeno della convergenza linguistica. Allo stesso tempo lingue di gruppi numericamente inferiori e tecnologicamente poco sviluppati erano soppiantate da quelle degli invasori. Si può in questo caso parlare di sostituzione linguistica, fenomeno che si può riscontrare anche in tempi recenti. La mobilità umana e le complicate vicende storiche e politiche hanno spesso determinato anomalie territoriali, provocando ad esempio la contiguità di parlate appartenenti a famiglie tra loro assai lontane. L’ungherese, circondato da territori indoeuropei, appartiene alla famiglia uralica. Il finlandese è un’altra lingua parlata in Europa ma non indoeuropea, così come il basco, diffuso oggi in alcune province della Spagna e della Francia, rappresenta forse il caso più emblematico della situazione europea. Si tratta infatti di una sorta di isola linguistica sopravvissuta, per una molteplicità di ragioni non sempre facilmente spiegabili, ad una lunga serie di successive ondate di colonizzazione linguistica.  
In tal senso, come già suggeriva Schmidt alla fine del diciannovesimo secolo: non bisogna richiedere alla classificazione genealogica più di quanto essa può dare. Egli, criticando in particolare la teoria dell’albero genealogico e rifacendosi alle lingue indoeuropee, propugnava un’altra teoria, chiamata poi teoria delle onde, in cui sosteneva che le innovazioni linguistiche si erano diffuse a guisa di onde che, partendo da vari centri, si intersecavano tra loro. In tal modo le varie lingue rimanevano collegate, finché il predominio di alcune faceva scomparire quelle vicine, mettendo a contatto idiomi che prima erano lontani. Tale ipotesi permette di spiegare alcune innovazioni che, sviluppatesi in centri diversi, confluivano in alcuni punti senza però sovrapporsi mai in modo perfetto. 

Tratto da GEOGRAFIA POLITICA ED ECONOMICA di Filippo Amelotti
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