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La mafia dei giardini in Sicilia


A questa mafia si affianca ben presto quella dei giardini, che in un regime di proprietà e di mercato, dalle caratteristiche assai differenti, trova egualmente spazi di espansione e radicamento territoriale. Nel secondo Ottocento l'agrumicoltura occupa un ruolo chiave per l'economia isolana. La struttura della produzione del commercio agrumicolo si innerva su una serie di relazioni fra i suoi attori estremi, il produttore e il commerciante, che lasciano ampio margine di manovra a quei comportamenti di mediazione violenta nei quali viene a definirsi il comportamento mafioso.
La mediazione violenta riguarda anche i fattori produttivi. Nel caso dell'agrumicoltura essenziale è il problema del controllo dell'acqua. Accanto all'acqua, la custodia, le gabelle, la mediazione commerciale sono i beni che sostanziano la mediazione mafiosa nell'ambiente agrumicolo. È evidente come tali beni rimandino ad una serie di transazioni che coinvolgono un ambiente sociale assai più strutturato di quello su cui fa generalmente perno la mafia del latifondo, dove aristocratici e gabelloti sono figure fondamentali e sufficienti. Nella mafia dei giardini a queste figure si uniscono altri generi di intermediari assortiti come i guardiani, i sensali e i fontanieri. Il guardiano spesso si accorda con l'acquirente pretendendo una tangente sulla merce, che diviene, a quel punto, oggetto di furto. Il guardino poteva, però, anche sottrarre parte del prodotto già acquistato e pagato ma non ancora raccolto. Il problema per i possidenti era quello di elaborare strumenti di controllo ma come notava un osservatore contemporaneo, l'impresa era impossibile perché le vie legali erano troppo costose e quelle economiche inutili. L'unica soluzione era affidarsi alla protezione mafiosa. La mafia così instaurerà un tendenziale monopolio territoriale sulle risorse e sulle attività, dinamico ed efficace, ben lontano dai romanticismi contemporanei dei Pitrè.

Tratto da STORIA DELLA PEDAGOGIA di Gherardo Fabretti
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