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L'ambivalenza di M. Butterfly




Fin qui il testo di Hwang. Al di là delle forti implicazioni di genere quel che emerge dalla lettura dell'opera è la messa in scena di una relazione fantasmatica, di un rapporto perverso e appassionato, in cui il confine fra realtà e illusione è decisamente permeabile. È proprio questo aspetto a colpire la sensibilità di Cronenberg, da sempre ossessionato dai concetti di identità e mutazione. La scelta di portare sullo schermo il dramma di Hwang non è semplicemente un fatto occasionale ma la risposta ad una serie di suggestioni che la storia provoca nel suo immaginario.
L'intuizione del regista è anzitutto quella di alleggerire la complessità strutturale del testo per mettere a fuoco le dinamiche di relazione fra i due personaggi principali. La narrazione a flashback viene allora sostituita da uno sviluppo lineare, in cui la progressione degli eventi non subisce alcuna interruzione ma fila dritta fino alla catastrofe finale. Cronenberg, con grande sapeinza registica, astrae lo spazio, distrae il tempo e soprattutto in – lude la realtà attraverso l'irruzione di una perenne soggettiva rapita allo sguardo confuso e delirante di Gallimard. L'idea del film coincide con la volontà di esplorare l'origine mentale del desiderio e la genesi cerebrale della sessualità: il discorso sul corpo e i suoi dis – incanti, su cui si regge il plot, viene declinato a partire dalla centralità dei volti, dall'intensità dei primi piani.
I protagonisti
Jeremy Irons attraversa il film con sguardo affascinato, allucinato: gli estatici close up sul suo viso diventano la cifra stilistica più forte per esprimere l'inquieta gioia con cui Renè si abbandona all'amore per l'incarnazione della propria fantasia.
Alla vibrante partecipazione emotiva di Irons fa da pendant la controllata seduzione di John Lone, capace di rendere assolutamente credibile l'illusione amorosa del suo partner. Una delle più sottili provocazioni del film di Cronenberg riguarda proprio la scelta di Lone per il ruolo di Song, essendo egli già conosciuto al pubblico e dunque immediatamente riconoscibile per lo spettatore, tutt'al più che il suo nome viene indicato già nei titoli di testa. In fondo non è lui il problema centrale ma l'assoluta cecità di Gallimard.
Nel segno dell'ambivalenza.
È dunque nel segno dell'ambivalenza che si consuma il rapporto tra Song e Gallimard, nella costante attrazione del reale a favore di una logica dell'inconscio, delle reverie e del desiderio. Basta pensare alla messa in scena del loro primo incontro per cogliere la simbolica alterazione della verità dei segni: Gallimard assiste ad uno spettacolo senza storia né valore eppure per lui quella visione è sfolgorante. Song è fin dall'inizio consapevole della virtualità fallace dello sguardo di Gallimard e su questa scia costruisce la sua impostura, scegliendo di farsi specchio opaco nel quale si riflette una intimità insondabile e inconoscibile.

Tratto da CINEMA E TEATRO TRA REALTÀ E FINZIONE di Gherardo Fabretti
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