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La contrapposizione tra deficit e conflitto nelle teorie sulla schizofrenia


I teorici che fanno riferimento al modello del deficit ipotizzano che alla base della malattia schizofrenica ci sia un deficit di base che impedisca al soggetto, a partire dalle prime esperienze con i genitori, di internalizzare uno stabile senso di sé determinando così una vulnerabilità di base, che successive situazioni traumatiche possono precipitare fino a causare la frattura della fragile continuità del senso di sé del soggetto.
L’erompere della sintomatologia psicotica rappresenta il tentativo di fronteggiare questa sconvolgente esperienza attraverso la restituzione di una neorealtà. Questa impostazione ha qualche affinità con quelle ipotesi che individuano la eziopatogenesi della psicopatologia grave nelle carenze dell’ambiente di base nel fornire cure parentali contenitive e confermanti l’emergente sé del bambino (Winnicott e Kohut) e da qui discende un’impostazione terapeutica che privilegia la concezione dello spazio terapeutico come spazio accogliente ed empatico in cui si possa dispiegare la relazione e forse anche un’impostazione riabilitativa, che individua nelle strutture intermedie setting allargati in cui l’organizzazione dello spazio e del tempo dei pazienti costituisce il campo privilegiato degli interventi terapeutici mediante i quali dovranno ricrearsi, in termini winnicottiani, quelle condizioni di fiducia capaci di favorire la ripresa del processo maturativo.
La lettura conflittuale si basa sull’ipotesi che nella psicosi si determinano conflitti e difese della stessa specie di quelli nevrotici ma di maggiore intensità: di qui l’impostazione che tali disturbi possano essere trattati con la tecnica psicoanalitica classica (Klein, Bion) che privilegia l’interpretazione su altri fattori terapeutici.
La dicotomia deficit-conflitto è stata messa in discussione poiché troppo schematica rispetto alla possibilità che un aspetto deficitario possa determinare successivamente una difficoltà ad affrontare un conflitto e viceversa.
E’ importante che il terapeuta riesca ad individuare i bisogni emergenti del paziente fornendo da una parte un contenimento delle angosce, ma riuscendo nel contempo a modulare la distanza nel rapporto a causa della forte ambivalenza espressa dal bisogno-paura dell’altro che rappresenta una delle caratteristiche fondamentali di questo disturbo. Bisogna prevedere un atteggiamento e un setting flessibile che permetta lo stabilirsi di un clima di fiducia che porti da un attaccamento emotivo al terapeuta al profilarsi e al consolidarsi dell’alleanza terapeutica. Trascurare la gradualità della relazione terapeutica, che altrimenti verrebbe vissuta dallo psicotico come una minaccia ed un pericolo, è uno dei motivi più frequenti degli insuccessi della terapia.
Nella terapia del paziente psicotico, il terapeuta non si limita, come per il nevrotico, ad offrirgli certe modalità cognitivo-emotive con cui porsi in modo nuovo di fronte ai suoi problemi, ma affronta questi problemi per il paziente, attraverso i propri sogni, la propria fantasia, la propria creatività. Nella misura in cui il paziente interiorizza tali processi psichici del suo terapeuta, li trasmuta nei moduli della propria psicosi, e quindi non c’è solo una interiorizzazione trasmutante del paziente, ma anche un’interiorizzazione trasmutante da parte del terapeuta.

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