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L’etica nella gestione del rifiuto del trattamento dello psicotico


Di fronte ad un paziente che rifiuta il trattamento e le cui condizioni cliniche non rivestano carattere di gravità e urgenza, si profila una questione etica, che altro non è se non un aspetto parziale della complessità del discorso etico in ambito psichiatrico.
Gli aspetti etici del trattamento farmacologico in psichiatria sono motivo di generale riflessione dopo la rivoluzione prodotta negli anni ’50 dalla scoperta casuale della cloropromazina per la schizofrenia, seguita dallo sviluppo di nuovi preparati per l’ansia (benzodiazepine) e la depressione (triciclici). La rivoluzione farmacologica determinò una drammatica diminuzione del numero di pazienti trattati negli ospedali psichiatrici.
La decisione dello psichiatra su quando e a quali pazienti prescrivere un farmaco è basata su una considerazione dei rischi e dei benefici; tale considerazione raramente può appigliarsi a criteri scientifici netti e assoluti. I farmaci usati in psichiatria sono agenti potenti, hanno effetti collaterali e inducono problemi di tossicità e dipendenza; è tuttavia indubbio che apportino benefici sostanziali sui sintomi delle patologie psichiatriche, anche se raramente determinano una remissione completa e stabile.
I timori dei pazienti includono la paura di essere danneggiati, di assuefarsi e di perdere il controllo di se; tali timori sono alimentati dalla consapevolezza dei rischi e dei pericoli dei farmaci psicotropi, fornita dalla pubblicazione di articoli e libri in materia, dalla crescita dei consumi e dai movimenti per i diritti civili.
Il problema fondamentale non coincide con il diritto di rifiutare il trattamento ma con il diritto di ricevere un buon trattamento, di rifiutare un cattivo trattamento e di avere possibilità di ricorrere a un giudizio esterno.

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