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L'accoppiata Zavattini - De Sica

L'accoppiata Zavattini - De Sica


Rilevante quanto Rossellini, ma oscurato da una ultima parte di carriera piuttosto mediocre, è Vittorio De Sica. Fu complice privilegiato dello sceneggiatore Cesare Zavattini, e si era già imposto negli anni ’30 come attore. Zavattini è uno dei padri spirituali del neorealismo. Uomo coerente con i suoi principi, nonostante la difformità di opinioni e le sensibilità divergenti dei registi coi quali ha lavorato, a partire proprio da De Sica.  Iniziamo con Sciuscià, del 1946.  Terzo capolavoro del Neorealismo, dopo le opere di Roberto Rossellini "Roma città aperta" e "Paisà",
"Sciuscià" affronta il delicato tema del disagio sociale in una Napoli sconvolta dalla guerra e dall'occupazione americana. La narrazione si avvicina allo stile documentaristico, utilizzando attori presi dalla strada e location reali, senza alcuna ricostruzione fittizia. La pellicola - premiata con un Oscar nel 1947 - poggia su una solida sceneggiatura firmata da Cesare Zavattini e Sergio Amidei. Pasquale e Giuseppe sono amici per la pelle ed in un certo senso "colleghi di lavoro"; per racimolare soldi, infatti, lavorano come sciuscià - contrazione dell'inglese shoe shine, vale a dire lustrascarpe - a Napoli. Pasquale è il più grande dei due, è orfano e vive con i genitori di Giuseppe, i quali a loro volta campano con i soldi fatti dai ragazzini. I due sventurati sono legati da un intenso affetto e condividono un sogno: comprare un cavallo bianco tutto loro. Con un "lavoretto" da poco, che consiste nel consegnare una partita di coperte ad una veggente, il desiderio si avvera: Pasquale e Giuseppe comprano il cavallo e si presentano agli altri sciuscià, nello stupore generale. Purtroppo, la soddisfazione dei due ragazzi dura poco: una segnalazione della veggente, derubata delle coperte, porta la polizia ad arrestarli. Ignari d'essere stati coinvolti in un furto, Pasquale e Giuseppe finiscono davanti al giudice che li invia al riformatorio. Qui, in attesa di giudizio, entrano in contatto con altri ragazzi, delinquenti e sbandati. Maltrattati ed incompresi, subiscono un'esperienza dolorosa che li cambierà, guastando persino la loro amicizia; la fuga si rivelerà più drammatica della detenzione e sfocerà infine in tragedia.
Il film accoglie in pieno le indicazioni fondamentali della poetica di Zavattini, con la macchina da presa che “pedina” i personaggi nel loro vagabondare quotidiano, talvolta distraendosi quasi dall’asse centrale dell’azione, per filmare gli aspetti apparentemente marginali della realtà, raggiungendo comunque toni di grande vigore drammatico, anche se l’aspetto formale può sembrare in apparenza spoglio e dimesso.

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