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I conflitti sociali nel nord Italia - 1960 -


C'erano molti fattori oggettivi che lasciavano prevedere una ripresa dell'iniziativa operaia nelle fabbriche del Nord: la situazione di quasi piena occupazione aveva dato più sicurezza agli operai, che la fiducia l'avevano persa sin dalla fine degli anni '40; gli operai ben presto capirono che protestando ottenevano vantaggi e miglioramenti di condizione; le trasformazioni tecnologiche avevano accelerato e meccanizzato il processo produttivo a tal punto da disumanizzare chi vi lavorava dentro, scatenando proteste.
La particolare insoddisfazione e l'insofferenza dei nuovi lavoratori meridionali fu la miccia che riaccese vecchie tensioni. Gli operai meridionali trovarono al nord le risorse e il benestare per una manifestazione collettiva di protesta impensabile al sud, portando con loro una pesante eredità di risentimento per quel nord che pur tanto ricco e magnificente non aveva saputo garantire loro nemmeno un discreto stato sociale.
La guerra scoppiò nel 1962, in occasione del rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Il sindacato avanzò la richiesta di una riduzione dell'orario di lavoro da 44 a 40 ore settimanali, distribuite su 5 giorni anziché su 6. Si richiedeva inoltre la diminuzione delle differenze salariali, l'abolizione del premio di collaborazione e maggiore libertà di azione dei sindacalisti dentro la fabbrica. La FIAT era il grande punto interrogativo della protesta: i suoi operai erano meglio pagati di ogni altra fabbrica, avevano pochi operai meridionali e chi vi lavorava godeva di una efficiente politica assistenziale e sociale. I motivi per unirsi alla protesta erano pochi. Del resto la FIAT aveva provveduto a licenziare o isolare in reparti confino tutti i lavoratori sediziosi o turbolenti. Il sindacato
metalmeccanici, tuttavia, aveva un disperato bisogno dell'alleanza con quei lavoratori, che però non pensavano minimamente a incrinare i rapporti con la direzione. Nel 1962 gli scontri avvennero a Torino in due fabbriche, con risultati diversi: positivi nello stabilimento Lancia, negativi e conditi da scontri e incidenti assai pesanti nello stabilimento Michelin. Il 13 giugno, primo giorno di sciopero nazionale, gli operai Fiat timbrarono normalmente il cartellino accompagnati dai fischi degli operai delle altre fabbriche; nove giorni dopo, però, i 7.000 più duri si unirono allo sciopero; il 23 giugno 60.000 operai Fiati su 93.000 incrociarono le braccia. Il 7 luglio 1962 FIOM e FIM proclamarono lo sciopero totale di tutti i metalmeccanici torinesi, condito purtroppo da numerosi e sanguinolenti scontri destinati ad acuirsi quando uscì la notizia che UIL e SIDA (Sindacato italiano dell’automobile, accompagnato, per gran parte della sua storia, dalla definizione di ‘sindacato giallo’, cioè asservito agli interessi del padrone) avevano raggiunto un accordo separato con la direzione Fiat. Il risultato della notizia fu che circa 7.000 operai esasperati si riunirono nel pomeriggio in piazza Statuto di fronte alla sede UIL generando due giorni di scontri di inaudita violenza. Ci volle poco a smentire chi vedeva in pochi agenti provocatori la miccia dello scontro. Al processo ci si rese conto che la grande maggioranza di coloro che avevano preso parte ai disordini erano giovani operai, di cui almeno la metà meridionali. L'incontro dei giovani meridionali con gli operai settentrionali e con la tradizione della Resistenza avevano generato una miscela esplosiva che avrà lunghe e durature conseguenze, a riprova che le spinte sovversive delle classi popolari italiane non erano certo scomparse con il boom economico.

Tratto da STORIA CONTEMPORANEA di Gherardo Fabretti
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