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E. R. Curtis e la civiltà del libro

E. R. Curtis e la civiltà del libro


Nel Novecento la situazione è la medesima, costretto com’è stato, e com’è, a fare i conti con la catastrofe, con ciò da cui era partito e su cui si era costruito. Oggi la civiltà del libro è insidiata dalle fondamenta: le nuove tecniche rendono sempre più facile la conservazione e la circolazione della parola, è vero, e rendono più veloce il suo inserimento in repertori di memoria totale, ma allo stesso tempo la esteriorizzano, privandola del suo valore profondo, dermatico, perdendo la sua autentica capacità di salvare il concreto spessore della memoria, di sostenere il senso della distanza e della consapevolezza di sé.
Curtius offre un monumentale e fragilissimo thesaurus. Un libro che rivela una sottile e chiara coscienza della fragilità dell’ansia di memoria, conscio della casualità, della irrazionalità, di certi aspetti delle vicende culturali, dell’episodicità della bellezza e della aleatorietà della memoria. Nel libro è chiaro che il percorso della storia non è lineare, ma magmatico, e che le categorie entro le quali lo studioso cerca di tassonomizzare quell’immenso materiale non posso spiegare tutto. Il fascino del libro di Curtius sta nella sua spinta unitaria, nel suo sentito pathos per il destino presente di una immensa tradizione che affonda le sue radici nella cultura latina medievale, matrice della letteratura europea, che è la prima e fondamentale organizzatrice di quella unità culturale che ancor oggi è necessario riscoprire, come argine irrinunciabile al dilagare dei disastri e degli orrori della nostra epoca.
Cosa fa esattamente Curtius nel libro? Offre un catalogo di istituzioni essenziali, accumula una galleria di figure e simboli ricorrenti, mostra l’essenziale valore assunto da antichi sistemi di sapere, vedi ad esempio la retorica; individua opposizioni stilistiche di lunga durata, come quella tra classicità e manierismo; fornisce una fittissima serie di excursus su costanti tematiche o su istituzioni di lunga durata (come quella sulle formule di devozione e umiltà, o quella sul sistema delle virtù cavalleresche).
In definitiva ognuno dei punti di lavoro di Curtius si rivela essenziale per lo studio di tutto l’arco della letteratura europea, suscitando discussioni, confronti, correzioni, obiezioni, convergenze eccetera. Certo, dal libro di Curtius si sono arricchite le nostre conoscenze sul Medioevo e spesso queste hanno anche complicato le teorie dello studioso, facendosi strada idee che hanno minato l’idea di unità di quel mondo culturale.
Alla cultura latina si sono aggiunti, infatti, gli apporti delle culture germanica, greca, slava, araba, celtica e la latinità stessa si spezza in momenti diversi che pesano in maniera diversa; si mettono in rilievo i problemi dati dalla produzione e trasmissione dell’importantissimo oggetto libro; si sottolinea in maniera più ampia, al di là di una troppo marcata continuità con il latino, il ruolo giocato dalla cultura cristiana e dagli usi della Bibbia; si ricercano, infine, gli apporti dati dalla cultura popolare e “bassa”.
Alla continuità di Curtius, insomma, oggi si preferisce la discontinuità e il rilevamento delle fratture interne alla realtà medievale, come alla sua distanza da noi e come molti aspetti della cultura dell’epoca sono per noi moderni quasi incomprensibili se non totalmente. Ma questa divergenza non toglie che il messaggio finale sia condiviso da tutti: l’importanza della salvaguardia della memoria, il riconoscimento dell’unitarietà della civiltà del libro e della parola, la volontà di far rivivere lo spirito e la forza di quella coraggiosa ricostruzione per salvarci dai tempi bui che giungono, quelli che, volendo soffermarmi alle piccole cose, creano riforme universitarie che tollerano solo brevi libercoli e stracci di fotocopie, significativo atteggiamento di questa oscurità dei tempi.

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