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Festeggiamenti a Napoli per san Tommaso d'Aquino


Il Viceré, il Conte di Benavente, diede disposizione che nel giorno fissato per la cerimonia (19 gennaio 1605) le Piazze della città si riunissero e designassero deputati ad hoc.
I Sei eletti tentarono di eleggere se stessi, ma il Viceré non cedette e quindi si procedette all’elezione dei deputati per ciascuna Piazza.
La nobiltà napoletana fece ancora di più; per sostenere le spese della festa e della cerimonia si tassò con una generosità non scarsa. Si tassarono di 3.413 Ducati divisi fra le diverse Piazze.
Le cifre per le famiglie vennero stabilito in base alle loro fortune. Le due Piazze più antiche e più forti, Nido (2.031 D) e Capuana (790 D), hanno versato più denaro rispetto alle altre, perché pretendevano, da sole, di rappresentare e guidare la nobiltà cittadina. Nido prevale su Capuana a causa della sua floridezza economica perché è composta dal maggiore numero di famiglie (43) che erano le più ragguardevoli per patrimonio e prestigio. La famiglia che più ha versato tra queste è quella dei Carafa (571 D). In Capuana la famiglia più ricca è quella dei Caracciolo (331 D). Le altre famiglie importanti degli altri Seggi sono i Mormile (50 D), i Colonna (50 D) e i Sanfelice (25.5 D).
Questa ripartizione fa capire che la forza dei due più grandi Seggi è in mano a due famiglie sole e che grazie ai loro molteplici rami hanno una garanzia di forza e di durata. Per quanto riguarda le altre singole famiglie la situazione dell’oligarchia aristocratica napoletana appare di gran lunga più equilibrata. La stratificazione sociale della nobiltà dei Seggi è così composta: per circa 130 nuclei appaiono circa 500 contribuenti, e solo 4 di questi da soli danno l’ottava parte del totale, (Principe di Stigliano- Duca di Mondragone-Carafa-  Principe di Molfetta-Gonzaga-  Principe di Venosa-Gesualdo).
Si tratta di una ripartizione fondamentale per capire la stratificazione dell’aristocrazia napoletana nei redditi e nella reputazione patrimoniale.
Appare infatti come alcune famiglie non abbiano ancora raggiunto nel XVII un grado di prestigio che acquisiranno in seguito, come per esempio i Filomarino o i Brancaccio. Altre appaiono nel loro momento migliore, come i Loffredo. Altri ancora risentono di notorie crisi, come senza dubbio i Sanseverino.
La nobiltà di Seggio, in pratica rappresentava a Napoli tutto: non solo  governava ma forniva riferimenti politici e culturali in tutto il Mezzogiorno.
L’iniziativa del patronato aveva un valore politico e ideologico; con essa la nobiltà di Seggio marcava un momento fondamentale di quel processo di  presa di coscienza e di rivendicazione storico-politico-culturale.
Con la proclamazione a patrono di San Tommaso, nobile illustre e santo più vicino ai canoni ortodossi tridentini, la nobiltà di Seggio si assicurava una solida base che dava riaffermazione della tradizione nobiliare come tradizione della città.
Bisogna precisare che in seno alla nobiltà di Seggio esisteva una nobiltà minore che è effettiva promotrice dell’iniziativa (Claudio Milano).
Per quanto riguarda la processione all’inizio non si voleva far portare l’asta del pallio alla Piazza del Popolo in base ad una vecchia legge del re Federico d’Aragona. Alla fine però il Viceré concesse alla Piazza popolare di portarla, sottolineando l’intenzione di stabilire un ruolo popolare significativo nella celebrazione.
Il ruolo pubblicistico svolto dal Capaccio per l’occasione tendeva a stabilire un collegamento fra popolo e nobiltà.
Il Busto e la Teca argentea di San Tommaso, in cui è rinchiusa una reliquia che già la città possedeva, furono collocati accanto a quelli degli altri patroni; ma comunque non ci fu una forte aggregazione culturale ne devozione particolare per in nuovo Santo patrono. Si ha l’impressione che alla radice dell’iniziativa di patronato ci fosse solo un inizio di valutazione intellettualistica, non sorprende d’altronde se si pensa alla matrice sociale, la piccola nobiltà, in cui l’iniziativa maturò.
Anche i festeggiamenti meritano una piccola analisi. Il Valle scrive che erano stati molto pomposi, con fuochi artificiali, altari adornati, lunghe processioni, molti inni, elegie ed emblemi. Ci furono anche delle orazioni pronunciate dal Domenicano Hieronimo de Miesses, spagnolo, pubblicate lo stesso anno (1605). In esse l’oratore traccia due ritratti, uno della città, l’altro di San Tommaso.
Napoli viene descritta come la biblica Sara, che guadagna a suo figlio Isacco l’eredità di Abramo, escludendo Ismaele, e che attira a se l’attenzione e il desiderio di tutti quelli che vogliono impadronirsene. A differenza di altre città Napoli non si incorona di sola grazia di santi lontani o lavori altrui, ma con le sue opere e le sue mani; con i suoi santi.
Tutto questo fa parte del primo dei “tre mistici Monti” del Miesses: quello del Regno, maestà e grandezza, quello della Scienza “che approssima Iddio, ed scuopre i pericoli”. Il terzo monte è quello della Religione “monte di rifugio”. Qui ad attirare il filo dell’esposizione è l’Ordine Domenicano, prescelto da Tommaso. A quell’Ordine il Santo vi giunse, dice il Miesses, come figlio di un nobile Principe che rinunciò a tutto per essere un umile frate predicatore.
La prima parte della predica esalta l’ideologia nobiliare, la seconda invece è meno interessante della prima e vi ricorrono alcuni motivi della prima, l’esaltazione di Napoli innanzitutto e i pregi della nobiltà.
 Comunque le orazioni sono un tassello ulteriore del gioco politico, ideologico, ecclesiastico che si svolse intorno alla questione del patronato; esaltazione della nobiltà cittadina, affermazione di un Ordine religioso (Domenicano), difficoltà frapposte all’iniziativa, rientravano in quel gioco. Nelle prediche del de Miesses, non c’è neppure un accenno alla Corona, e al potere regio, perciò la prospettiva dell’oratore si mantiene all’interno del piano municipale ed ecclesiastico. In effetti l’atteggiamento del Viceré appare ispirato solo a un moderato interesse e all’ ovvio compiacimento per una iniziativa che rientrerà appieno nei termini dell’ortodossia ecclesiastica e religiosa.

Tratto da NAPOLI CAPITALE di Stefano Oliviero
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